Voci della seconda guerra mondiale

IL DIARIO DI MARIO GIAMBELLINI

Panorama di keziers

Questo diario, scivolato nell’intercapedine di un cassettone, per lunghi anni fu considerato perso.
Fortunosamente ritrovato dal mobiliere Sig. Gobetti, venne poi restituito alla legittima proprietaria signora Elsa, figlia dell’autore Giambellini Mario.
Il diario di guerra del soldato Giambellini Mario, attendente di cavalleria, inizia l’otto di settembre dell’anno 1943.
Il 2° Squadrone di Complemento del Savoia Cavalleria al quale era in forza aveva lasciato Milano in seguito ai terribili bombardamenti avvenuti tra l’8 e il 16 agosto; così li descrive: «Sono notti di terrore, le case sono squassate, squarciate, i vetri ricoprono le strade come neve, finestre, persiane, porte, saracinesche sono divelte dai cardini e dalle guide.
Molte vie sono sventrate, i binari dei tram sfasciati, le linee telefoniche ed elettriche un groviglio di fili, dalle condutture spezzate l’acqua gorgoglia tranquilla fra il pietrame [...], palazzi di 15 e 20 piani tagliati a metà come un pan di burro.
Buche enormi per le vie, tanto che in una c’era cascato (e ci rimaneva) un camioncino.
In Caserma da tre giorni siamo privi di luce elettrica e d’acqua, i cavalli si portano in piazza 20 Febbraio, là una scheggia ha spezzato a metà la fontanella, l’acqua sprizza dalla canna divelta e con un secchio do da bere ai miei cavalli Fenolo e Ovidio.
Dissetati ben bene, mi guardano con occhi pieni di riconoscenza.
Qualche bomba a scoppio ritardato esplode ancora seminando frequentemente delle vittime.
Povera Milano! Così bella, piena di vita e di felicità, ora è ridotta a un mucchio di rovine e di miseria.
La fame, la morte, il pianto, la distruzione e il terrore delle notti regnano sovrane.
Ogni giorno si trascina l’interminabile corteo della folla che cerca scampo fuori città.
Sfilata dolorosa di ogni ceto del consorzio umano con le cose più care, preziose, indispensabili su carrozzelle a mano, biciclette, motociclette, furgoncini civili o militari, camion, carrette trainate da cavalli o da asinelli.
Sembra la sfilata delle ricchezze di ogni strato della società.
Quante miserie! Quanti dolori! Con quali occhi invidiosi fui guardato la sera del 12 agosto quando ben messo in sella, in compagnia di altri quattro soldati a cavallo prendemmo la via Sempione per recarci a passare la notte a Bollate.
Quale invidia per i nostri mezzi di trasporto!»
E ancora:« […] ho trascorso quattro notti terribili al rifugio della caserma fra l’esplodere pauroso delle bombe.
Il fuoco e la morte piovevano dal cielo.
Sembrava di rivivere la biblica scena della distruzione delle città di Sodoma e Gomorra.
Al rifugio eravamo privi della luce, però era ben puntellato con dei solidi tronchi.
L’incessante e pauroso scoppio delle bombe e i fischi laceranti che le accompagnavano erano preludio immancabile di morte e di rovina.
Sette bombe di grosso calibro sono cadute vicinissime a noi, due alla Caserma dei Bersaglieri, due alla Caserma della Sussistenza, con un incendio pauroso durato tre giorni [...], una è caduta di fronte al Circolo Ufficiali di Savoia, una al centro del piccolo giardino all’angolo della caserma, un’altra a pochi metri dal muro di cinta di fianco all’edicola del giornalaio.
Dentro la caserma centinaia di spezzoni incendiari appiccavano il fuoco alla “Cavallerizza Perego” e alla scuderia del terzo squadrone dando alle fiamme il magazzeno delle munizioni e vestiario.
Altro incendio alla Scuderia dei Sigg. Colonnello Comandante Boccacci Vincenzo e Ten. Col. Pindinelli.
Incendio pure nella nostra Scuderia Ufficiali.
I cavalli li abbiamo fatti uscire attraverso il cortile, il cavallo del Sig. Capitano Adolfato è morto per asfissia ...»
La Compagnia parte a cavallo per Somma Lombardo, si ferma a Rho, Legnano, Gallarate.
« […] al chiarore lunare nella tiepida nottata d’agosto lasciamo che i cavalli mangino un po’ d’erba […], con lo sguardo scruto il cielo stellato.
Guardo la luna e so che quella medesima luna col suo pallido chiarore penetra fra le tende della camera dei miei vecchi genitori e di mia moglie.
Sarei felice se dicesse loro che io sono salvo, li penso, il mio cuore non ama che loro e desidero la loro pace, felicità e benessere.
Ma la luna può fare questo? […] il mio cuore in un impeto di amore rivolge a lei una preghiera: "Oh! luna che guardi la casa mia, porta un saluto e un bacio alla famiglia mia".
[…] Si riparte al passo, dopo dieci minuti l’eco lugubre delle sirene che lanciano l’allarme stride nell’aria portando al cuore un brivido di sgomento.
Il pensiero corre veloce alla notte precedente […], più oltre sentiamo il rombo dei motori degli apparecchi nemici [...] e scorgiamo infatti otto puntini neri che a grande altezza viaggiano in direzione di Milano.

La famiglia Schwab

Altro bombardamento?» Finalmente giungono a Somma dove fanno lunghe galoppate.
Lì lo va a trovare la moglie e scatta la data fatidica dell’8 settembre.
«[…] si fa palese a tutti che gli eventi maturano, si sente nell’aria che l’ora della fine non è lontana.
La situazione politica, militare, economica è molto tesa [...] L’infausto giorno “ironia del destino” sorge radioso e con un sole sfolgorante.
Giorno infausto, preludio di tante lacrime e sangue che il popolo italiano dovrà pagare, sii maledetto! Alle 17 sono in camerata a radermi la barba dinanzi allo specchietto, quando un urlo mi scuote: "Giambellini, la guerra è finita!".
Il compagno Angelucci si precipita come un bolide e mi abbraccia forte gridando: "È stato firmato l’armistizio!".
Io lo guardo e penso che sia impazzito: "L’ha detto la radio, tutta Somma ne parla".
Dal cortile giungono voci simili alle sue, si parla di resa, di armistizio.
Sì, la guerra è finita.
Io rimango incredulo, lui insiste e alla fine si viene ad un accordo: questa sera ascolteremo insieme la radio e se confermerà la notizia pagherò un litro di vino.
[…] l’Osteria dei Cacciatori è piena zeppa di civili e militari.
Si parla, si commentano le ipotesi più sballate […], improvvisamente viene chiesto il silenzio, dalla radio una voce annuncia che fra l’Italia e gli Alleati è stato firmato l’armistizio.
Non c’è ordine di attaccare i tedeschi che spadroneggiano sul nostro amato suolo, però c’è l’ordine di attaccare chi volesse sabotare l’armistizio.
Angelucci non ha mentito, e io pago il litro.
[…] in me c’è un grande dolore, penso a quello che ci potrà costare questo armistizio […] dopo 38 mesi di guerra […], a che è valso il sacrificio di migliaia di feriti, mutilati, prigionieri e dispersi? […] vedevo l’inesorabile logica delle cose e ricordavo con raccapriccio le terribili promesse che Hitler riserbava ai traditori.
Io non pensavo che la mia Patria fosse una traditrice, ma sentivo che tali ci consideravano i Tedeschi e non avrebbero tardato a far sentire il peso della loro crudeltà sul Popolo Italiano.
Il giorno 9 c’era chi era contento, chi dispiaciuto, chi denigrava i firmatari dell’armistizio e chi sottovoce andava dicendo che è un tradimento bello e buono […], nessuno aveva un’idea precisa […].
Si dice che i Tedeschi hanno chiuso Milano in una doppia cintura e hanno occupato il campo dell’aeronautica della Malpensa.
Difatti la sera nel cielo di Somma rombano due velivoli tedeschi con appese grosse bombe.
Volteggiano sul nostro capo come grandi sparvieri, per ben cinque volte passano a bassa quota.
Quale ammonimento era quello?! Si torna ognuno al proprio accantonamento con l’ordine di dormire vestiti, armi alla mano, e non farsi vedere in pubblico.
Si attendono disposizioni precise [...], la radio parla di arresti, fermi ai treni, controlli, sorveglianze, soldati fatti prigionieri.
Il Comandante del presidio Militare di Milano, Generale Ruggero Ruggeri, dà l’ordine di consegnare le armi, di non attaccare i Tedeschi.
Che fare?» Lo squadrone è in fuga, Giambellini in partenza saluta e ringrazia la famiglia che lo ha ospitato.
«Lascio in consegna alla famiglia un valigione con tutto il mio corredo […], con i compagni Angelucci e Sacchelli andiamo verso il luogo di raduno.
A Somma Lombardo, in Piazza del Cipresso, di fronte al vecchio castello degli Sforza e Visconti, regna un grande trambusto.
Ordini si incrociano da ogni parte, cavalli scalpitano impazienti, soldati caricano in fretta e furia i bagagli dei loro ufficiali e il materiale del Comando di Gruppo e di Squadrone.
Nel bel mezzo dei preparativi, ci passano improvvisamente fra i piedi due veicoli tedeschi diretti forse a Gallarate.
Penso con sgomento se quei porci ci dovessero sorprendere in pieno tentativo di fuga […].
Sono le sedici e trenta, l’ordine di marcia viene impartito, si prende Corso Umberto e al passo si va verso Mezzana, qui giunti ci mettiamo in buon ordine [...].
Si attraversa Arsago, Besozzo, poi via fra le strade di campagna, un po’ al trotto e un po’ al passo.

Mario a sinistra con croce d'argento

Verso dove? Si crede a Orino […].
È mezzanotte.
Viene dato l’Alt Squadrone per squadrone, si fa piede a terra e ci avviamo alla riva del lago di Varese.
Siamo a Gavirate, diamo da bere ai cavalli, poi risaliamo sulla strada provinciale.
Poche persone si affacciano curiose, ci offrono da bere […], ci incamminiamo su per un viottolo stretto e sassoso, troviamo delle viti e ci impossessiamo dei grappoli d’uva, poco dopo entriamo nel paesello di Orino.
Fra il trambusto generale, trovo il compaesano Campagnani Piero, gli spiego che siamo a pochi chilometri da casa, se valichiamo il monte Nudo ci troveremo a Laveno e da lì a Germignaga.
Lui ha due grosse valigie del maresciallo Tesori e non può abbandonarle, io ho cavallo, sella e finimenti del mio colonnello.
Ci lasciamo col proposito di attendere l’indomani per decidere.
Mi corico tra due selle, per cuscino ho la mia sellina e il tascapane.
Bel letto no? Il giorno 12 sorge pieno di luce e di ombre, diverse nuvole galoppano per il cielo, l’idea di una doccia sorride a pochi.
Sono le 7, diamo da bere e da mangiare ai cavalli, poi si parte.
Enormi castagni colle loro fronde ci accarezzano la bustina.
Molti lasciano i cavalli ai loro vicini, poi fughe nei prati, scosse forti alle piante di noci e mele, colgono l’uva e ritornano felici […], piove, i cavalli scuotono la groppa e la testa, la pioggia dà fastidio ma pure a noi fa poco piacere.
Lanciamo improperi al tempo, al duce e ai suoi degni amici, i Tedeschi.
Vigliacchi! […] A un bivio, una grande targa mi incatena lo sguardo "Per Luino, per Varese".
Luino, il mio paese natio […], no il mio onore non me lo permette e col cuore angustiato continuo la marcia [...] vicino a S. Ambrogio, molta gente si affaccia alle finestre, ci saluta, qualche mamma piange […], si scende verso Varese, i civili che affollano la provinciale ci guardano, vorrebbero sapere la nostra meta ma noi facciamo silenzio [...], si entra ad Arcisate, anche qui, come a Induno, la gente ci fa festa.
Nella piazza la folla che esce dalla chiesa ha compreso dalle nostre rosse cravatte a quale reggimento apparteniamo.
Vede le decorazioni di guerra di ufficiali e soldati e prorompe in una frenetica ovazione.
Evviva l’Esercito! Evviva il "Savoia"»!.
Ormai la decisione è presa, non resta che la fuga.
Il Gruppo si dirige verso la vicina Svizzera .
«[…] dicono che il nostro passaggio è noto ai Tedeschi e che ci cercano […] Dove si va? […] molti soldati hanno fatto ritorno alle loro case in abito civile, uno di loro è ferito gravemente da una scarica di mitraglia tedesca […], degli alleati di ieri l’Italiano ha sempre diffidato, nonostante l’alleanza voluta da Mussolini.
Ci avviamo verso Bisuschio, è la via per la Svizzera, la via della salvezza […], il suono degli zoccoli ferrati ha un significato lugubre; "perché, sembrano dirci, vi incamminate su questa via? Perché fuggite la vostra Patria come dei ricercati dalla giustizia?" La strada è lucida, si scivola facilmente, i cavalli allungano il collo, puntano i piedi, il dolore che ci pervade rende ancor più faticosa l’erta via [...], vorrei abbandonare il Gruppo per ritornare a casa.
Ma poi cosa sarebbe di me? Dovrei servire sotto il comando di coloro che odio? Il desiderio di vendetta dei fascisti per l’onta subita dal 25 luglio li fa zelanti servitori dei tedeschi che pare siano in cerca di noi […], se ci pescano siamo fritti: o ci portano in Germania oppure per noi è la morte […].
Tutti ci voltiamo per vedere ancora una volta la nostra terra […] noi, per non contribuire alla completa rovina della Patria, per non rinnegare l’onore di soldati prendiamo la via dell’esilio.
Sarà breve o lungo? Solleviamo la fronte al cielo e collo spirito dolorante, ma fidenti, innalziamo una muta preghiera per la nostra povera ma carissima Patria, per coloro che lasciamo e per noi che affrontiamo un destino sconosciuto [...] ecco un pianoro, una valle.
Strano, è tutta illuminata, qui non c’è l’oscuramento?

Mario, secondo da sinistra seduto a terra

È la Svizzera.
È il confine.
Eccoci giunti al grande passo.
Che fare? Entrare? Fuggire? A testa alta passo il cancello, al corpo di guardia, il nostro colonnello e il suo aiutante stanno parlando con gli ufficiali svizzeri.
Quali sentimenti proveranno per noi? Ci comprenderanno? I miei piedi calcano per la prima volta il suolo elvetico e mi sovvengo che qui in Engadina ho uno zio che da trent’anni è capo cucina del grande Hotel Albana a Saint Moritz.
Potrei scrivergli e lui venirmi a trovare.
Mi sarà data questa libertà? Dopo un po’ ci fermiamo, i nostri cavalli, camion, carri, automobili e biciclette ingombrano la via per tre chilometri.
Sono due ore che camminiamo, i cavalli si fanno trascinare.
Sotto la pallida luna i monti si perdono nella nebbia, grandi campi sono coltivati a tabacco […].
Si sussurra che i cavalli ce li porteranno via, potrebbero fare servizio nell’armata svizzera, non siamo più padroni di noi stessi, dovremo eseguire gli ordini di chi ci ospita.
Si attraversa Mendrisio poi si costeggia un lago, è il lago di Lugano.
[…] la lunga colonna di cavalli e cavalieri, macchine e carri entra in un grande prato.
Sono le 3 e 50, il sonno e la stanchezza si fanno sentire.
[...] Sono le 6½.
Le guardie strillano, ci svegliamo, i cavalli non stanno fermi, hanno fame.
Si parla di caffè, c’è musica che sveglia meglio della tromba, si tolgono le gavette e giù di corsa.
All’ingresso vediamo con sorpresa che il caffè c’è davvero, e anche il latte, il the e il formaggio.
Ma qui è una cuccagna! Nel pomeriggio arrivano due dottori e delegati della Croce Rossa Internazionale di Ginevra, chiedono dati sulla nostra nascita e provenienza, poi si torna alla tenda […].
Mi soffermo sulla foto dei miei benefattori che considero come legittimi genitori (ndr. Mario era stato adottato), volevo col mio lavoro contraccambiare la loro generosità, fare felici i loro ultimi giorni.
Invece eccomi qui!» Soldati e cavalli vengono fatti salire su un treno che li porterà alla destinazione finale: Kerzers C. Freiburg.
«Il giorno 16 sorge pieno di sole, dal fondo del campo sbuca verso di noi il Vicario di Mendrisio […], passa fra i soldati portando una parola di conforto, regala a tutti due franchi e una medaglietta, distribuisce carte da gioco, carte da lettera, raccoglie i nostri nomi, dice che farà il possibile per informare le famiglie […], alla stazione di Marroggia un treno speciale è pronto per noi.
Si fanno entrare i cavalli nel vagone, poi vengono distribuiti pane, formaggio e carne in conserva [...], poco dopo siamo a Lugano Paradiso.
A Bellinzona una fermata, gli abitanti fanno manifestazioni di gioia, però nessuno può avvicinarsi.
Un capo macchinista, saputo che sono di Luino, mi dice che tra mezz’ora deve guidare un treno laggiù.
Potessi andare! […] ci ingoia il tunnel del S. Gottardo lungo 14.998 metri, usciamo all’aperto dopo più di 40 minuti [...] al pallido chiarore lunare, vedo alcune case e dal tipo di costruzione capisco di essere nella Svizzera Tedesca, è il Canton Uri.
[…] si passa Lucerna e alle 23 siamo a Berna, la capitale della Confederazione Elvetica, alle 2 siamo a Ins "Anet", qui cavalli, uomini e materiale sono scaricati […], la lunga colonna se ne va […] incontriamo Müntschemier, un paesello agricolo, i campi sono bellissimi, pieni di ogni ben di Dio, uomini, donne e bambini ci salutano con la mano e ci danno il benvenuto, ma parlano il tedesco e non li capiamo [...].
In fondo alla strada, un po’ in collina, scorgiamo un bianco campanile dalla punta acuta.
Entriamo nel piazzale delle scuole di Kerzers C. Freiburg.
Siamo arrivati? Sono le 17.30, con i miei cavalli ed altri soldati guidati dal Serg. Zanfragnini Enrico entriamo nelle stalle dell’Hotel Krone.
Le stalle sono ben pulite, divise con solidi battifianchi che scendono a terra, sopra le lunghe rastrelliere del fieno ci sono targhe con nomi francesi, saranno dei cavalli internati prima di noi.

Mario secondo da destra

I nostri cavalli sono nove: Floro, G. Ovidio, Fenolo, Z. Pacasco, Favella, Favata, Effetto, Gerenzano, Zalorna.
Per tutta la sera le scuderie sono piene di gente del luogo che viene per vedere i cavalli, commentano, guardano, toccano e sono lunghe discussioni, ma chi li capisce? Molti di loro ci offrono sigari e sigarette, ben volentieri le accettiamo […]» Gli internati vengono accolti dagli abitanti di Kerzers, fanno amicizia con alcune famiglie e lavorano nei campi.
«Il primo saluto nella mia lingua mi viene rivolto dalla cameriera del ristorante, una graziosa biondina: Hanni.
Sa qualche parola di italiano e parla molto bene il francese ma io non lo conosco.
I padroni del ristorante e delle scuderie vengono a farci visita, il loro nome è monsieur Reutsc Fritz e madame Freida Netz.
Hanni mi fa delle domande, poi traduce alla sua signora.
La famiglia Schvab è la prima famiglia che ci accoglie, la figlia diciottenne Heddi si ferma volentieri a parlare e per mezzo suo la porta della loro casa è aperta a noi tutti.
La ragazza è intelligente, parla bene il francese e, per quanto nessuno di noi lo abbia studiato, la capiamo benissimo.
Lei pure non tarda a comprenderci e così riesco a trovare lavoro da lei con un altro mio compagno.
La famiglia è così composta: la nonna settantacinquenne Maria Schvab, Göttlieb il papà, Lina Löffel la mamma, un figlio Ernest, la figlia Heddi, un figlio Fritz, un figlio Verner e una figlia Verena "Freni".
Ci dimostrano affetto, la sera la trascorriamo a casa loro, spesso mi offrono del pane e del mosto, mele, grappa e qualche salamino.
Hanno la radio, la stufa è accesa, d’inverno si sta bene, così i giorni passano.
[…] Dobbiamo lavorare, però conosciamo gente e con mia grande consolazione comincio ad avere qualche soldo in tasca; i due franchi del sig.
Vicario di Mendrisio sono finiti da tempo e abbiamo bisogno di sigarette, lucido, sapone, poi tutti i giorni bisogna trovare il pane.
Io non ho mai fatto l’agricoltore, ma in breve zappo bene e raccolgo tante patate quante non ne ho mangiate in tutta la mia vita.
[…] I primi giorni non era così.
Al mattino ci adunavamo di fronte all’Hotel de l’Ours, si montava a cavallo e il sig.
Tenente Gianoli ci portava a gironzolare nei dintorni di Kerzers, poi si ritornava.
A mezzogiorno si andava all’Hotel del Jura con le gavette a prendere il rancio.
Si mangiava, poi un bel sonnellino di due ore, pulizia e fieno ai cavalli e si tiravano le 18.
Dopo cena un giro per Kerzers e di frequente si cantavano belle canzonette.
A ogni signorina che passava erano prolungati pss pss e frizzi, loro non comprendevano la nostra lingua, però capivano dalle mosse e dai gesti cosa cercavano gli internati italiani.
Alcune si facevano serie, altre ridevano e allungavano il passo, qualcuna rispondeva irritata "ciuch, tummacheiber".
Il significato di ciuch non lo comprendevo, ma la parola tummacheiber già mio padre me lo diceva e significa "stupido, cretino, scemo".
Intanto noi li chiamiamo "tügnit"».
I compagni d’esilio.
«I compagni d’esilio sono: Gemetto Guerrino veronese, Bossi Ermanno valtellinese, Bolzan Luciano veneto, Trebani Celso friulano, Minniti Francesco calabrese, Massarenti Ippolito ferrarese, Olgiati Genesio bustocco, De Rui Primo venebustocco, Loffi Abele e Fugazza Pietro piacentini, Cariello Antonio campobassese, Scaccabarozzi Dino comasco.
La vita con loro è cordiale, ci aiutiamo e sfottiamo, a seconda dei giorni.
A volte ci sono discussioni, però niente di grave.
Rimaniamo insieme fino al settembre del ’44.
Con l’inverno piazziamo la stufa e un po’ con le carte, un po’ con la dama, un po’ dalla famiglia Schvab passiamo le lunghe giornate abbastanza bene nella speranza che con la primavera tutto finirà.
Ogni giorno si va a cavallo col Ten. Gianoli e i Serg. Zanfragnini e Cioffi nella grande foresta di pini e abeti di Willeroltigen, oppure a Galaten [...], lunghe galoppate col vento che fischia nelle orecchie e percorsi ad ostacoli su un grande prato ai margini del fiume Aare […], in una caduta vengo scaraventato a terra, io e il cavallo ci troviamo nel fango fra i tronchi dei pini, sbatto fortemente il braccio sinistro e l’orologio regalatomi da mio zio va in pezzi.

Mario a destra con un amico

Kerzers c’é di stanza il 2° squadrone, a Frachels il 1°, a Kallnach il 3°, a Brüttelen ed a Müntschemier il 4°.
Così tutto il nostro gruppo é sistemato.
Ma il 25 gennaio del ’44 tutti i nostri cavalli vengono consegnati a Berna e dopo 15 giorni ci portano via tutto il resto: selle, finimenti, basti, feltri, collari e catene, carri e carrozzini.
Da quel giorno cerchiamo ansiosamente il lavoro, io comincio a fare fascine nella foresta e a spaccar legna.
Il guadagno è poco ma c’è un buon pasto a mezzogiorno e alla sera, e due merende, alle dieci e alle quattro.
La Famiglia Schvab ci abbona al giornale ticinese "Popolo e Libertà".
Ogni giorno scorriamo con ansia le notizie, ma ci convinciamo sempre più che la guerra si risolverà a lungo termine e per quanto fiero della via presa, spesse volte sento pesare sulle mie fragili spalle il peso di quella gran croce che è l’esilio».
Natale 1943 a Kerzers.
«Si avvicina il Natale, anche questo passerà senza vedere il focolare domestico.
Quest’anno poi la mensa familiare è ancor più deserta, io e i miei due fratelli siamo tutti assenti.
Chi consolerà i vecchi genitori? E le nostre mogli? L’autorità comunale di Kerzers invita formalmente tutti gli Italiani per la festa natalizia nel grande salone dell’Hotel dell’Ours, dove al centro del palco troneggia un grande albero di Natale.
Ci fa rivolgere in italiano il messaggio augurale.
Pian piano le teste si abbassano e scendono grossi lacrimoni […], poi l’allegria si fa generale e gli Svizzeri ci aiutano a dimenticare i nostri affanni.
La chiesa protestante è a nostra disposizione fino alle nove.
Io stendo sulla tavola che ricopre il fonte battesimale una bianca tovaglia, poi un cofanetto militare su cui poso un grande quadro di noce traforato scolpito e dipinto.
Alle otto precise arriva il cappel- La famiglia Schvab lano, lo aiuto a mettere i paludamenti sacri e sull’altare esagonale nel centro dell’abside iniziamo la S. Messa mentre il sig. Ten. Gianoli suona all’organo l’Ave Maria di Schubert.
Il sole splende e dopo la Messa passeggiamo per il paese.
Il pranzo nel grande salone dell’Hotel dell’Ours è buono e abbondante, seguito nel pomeriggio dalla tombola e dalla distribuzione di doni.
Però, nonostante l’abbondanza del pranzo, dei dolci, dei regali, nonostante la musica e i canti, il pensiero è alla mia casa, alla mia famiglia e ai miei fratelli.
Che ne sarà di loro? […].
A S. Stefano siamo invitati a cena dai padroni del ristorante Zur Krone.
Due signorine ci servono con cura una buona "zuppa di biada", due por- tate di maccaroni al sugo, salcicce in salsa, bistecche, insalata, patate, barbabietole, poi frutta, dolce, caffè e vino in quantità.
Terminata la cena, madam Frida va al pianoforte e ci suona dei pezzi di Beethoven e Strauss, il ten.
Gianoli pezzi di Bach, Wagner e Rossini.
La signora Rosmarì, nipote dei Sig. Reutsc/Natz, suona Santa Lucia e noi le facciamo coro.
Io alzo un bicchiere e canto il brindisi dell’operetta Cappuccetto Rosso».

Mario giambellini fa il bucato

I gemellini Peter e Fredi.
«[…] Peter e Fredi sono due gemelli di cinque anni.
Sono sempre da noi, sulla piazza prospiciente la nostra scuderia e il negozio di sellaio del padre Alfred Scench.
Sono due diavoletti, non stanno mai fermi, mangiano sempre e combinano guai.
In breve tempo imparano molte parole in italiano.
Quello che mi dispiace tanto è che qualcuno dei miei compagni bestemmia e loro ripetono in modo chiaro le bestemmie in italiano.
Mi è doloroso sentirli, la bestemmia su quelle labbra innocenti grida vendetta.
Molti ragazzi e adulti imparano le bestemmie e questo è una vergogna per l’Italia che fu maestra di civiltà.
Simili sbagli si possono pagare molto cari.
I due ragazzini sono da noi teneramente amati, la loro presenza continua e affettuosa ci dà tanto conforto.
Li portiamo sempre a passeggio e con loro siamo felici.
Quanti doni ci danno e quanta gioia […] » La domenica dell’Internato.
«Al mattino della domenica preparo l’altare nel grande corridoio delle scuole, poi vado alla stazione a ricevere un sacerdote domenicano.
È alto come me, bruno, piemontese e viene da Friburgo dove studia ancora.
Gli servo la S. Messa dal 18 settembre 1943 fino alla Pasqua seguente.
Terminata la S. Messa si torna alla scuderia, si va alla vicina fontana che è l’abbeveratoio pubblico e lì si lavano gli indumenti cambiati la sera prima.
Gli abitanti del luogo vedendoci lavorare di domenica si arrabbiano e dicono: "Italiani ferruz".
Faccio delle lunghe passeggiate nella foresta con il cane del sig. Reutsc, Tucco, e qualche volta per cacciare la nostalgia canto a piena voce le canzoni più belle che ricordo.
A volte mi rifugio nei più reconditi e silenti recessi della grande foresta e seduto su un tronco o un sasso lascio libero sfogo al mio pensiero.
Il cuore vede tutti gli oggetti del suo affetto coperti di fango, di lutti e di rovine, i desideri più legittimi sono sogni che non possono essere soddisfatti.
Spesse volte invidio i caprioli, le lepri, gli uccelli che hanno la loro casa, la loro pace.
Noi non l’abbiamo.
Perché? […]» 18.4.1944, presa di possesso delle baracche e celebrazione della S. Pasqua.

Baracche costruite dai polacchi

«Arrivano tre vagoni di materiale per le baracche, sono smontate, basta mettere i pezzi numerati ed in breve tutto è fatto […].
Le baracche le hanno erette i soldati polacchi internati dal ’39.
Noi li abbiamo aiutati a fare la cucina, un lavatoio e il gabinetto.
Siamo felici perché oggi prendiamo possesso delle baracche.
Il nostro ingresso è simile a quello di uno sciame d’api che segue la sua regina.
Sono le otto, in compagnia di Celso porto la branda, la cassetta e prenoto il posto.
Le baracche sono tre, una adibita a sala da pranzo, le altre due per dormire [ ...].
Nella mia camerata c’è il sarto, nell’altra c’è Santoro, il barbiere.
La divisione delle camere è di legno sottile e così anche in branda ci sfottiamo.
Da quel giorno, specie alla sera, c’è sempre un gran rumore: chi canta, chi gioca, chi strilla e chi litiga.
La radio canta a tutta forza.
Gli abitanti del luogo vengono a più riprese a visitare il nostro piccolo angolo di Italia.
Il giorno di Pasqua lo passiamo nella baracca adibita a sala da pranzo.
È ampia, spaziosa, ha sei finestre e due porte, una ventina di tavoli e quaranta panchine.
La S. Messa è celebrata in un albergo di Fraschels, ma io non posso assistervi perché il cappellano arriva in ritardo e io devo tornare a Kerzers; ho in consegna il cavallo del sig. Fritz, quindi la Pasqua va così.
Nonostante l’incessante e affettuoso invito dei miei padroni, io non voglio mangiare con loro nel grande salone del Restaurant.
Colla mia gavetta e in compagnia di tutti i soldati consumo il pasto pasquale che è buono, abbondante e abbastanza allegro.
Le baracche godono di un bel sole, sono nuove, pulite, e si sta bene.
Nello spazio di pochi giorni, il sig. Cavadini, internato anch’egli, apre uno spaccio e a buon prezzo abbiamo vino, birra, acque minerali, sigarette.
Gli Italiani spendono e spandono, lavorano duramente, ma poi vogliono soddisfazione e così in breve col guadagno dello spaccio il nostro capitano sig. Surdo Vito ci compera una piccola radio.
Quella povera radio dovrà lavorare molto, al mattino presto un paio d’ore, altrettanto a mezzogiorno e alla sera dalle 18 alle 21 e 30.
Da quella piccola radio noi ci attendiamo molto».
Finalmente le forze alleate risalgono la penisola italiana e contemporaneamente sbarcano in Normandia, alimentando nuove speranze.
«Il 4.6.1944 Roma è occupata dagli Alleati e noi, felici, si attende la corsa fulminea verso nord.
Il giorno 6 del medesimo mese con forze innumerevoli di mare e di cielo gli Alleati riescono a sfondare il Vallo Atlantico e sbarcano a St. Malò ed a Bherbuorg.
La gioia ci invade, le operazioni in Italia vanno bene e i Tedeschi sono in fuga.
I Russi avanzano, l’atteso secondo fronte è aperto e crediamo che per il prossimo Natale saremo nelle nostre case.
Dal 27 marzo ai primi di luglio sono impiegato dalla famiglia Reutsc/ Natz, sistemo il grande giardino di monsieur Fritz dietro l’Albergo.
Sono giornate liete, il lavoro non mi stanca, lavorando il tempo passa più in fretta.
In quel grande giardino spesse volte gorgheggio le mie canzoni.
Talvolta fa capolino qualche persona che mi sta a sentire, quando mi accorgo, taccio subito, e loro a dirmi con premura "Marius, singen, singen Marius, bitte" ma io non canto più.
[…]. Dalla Sig.ra Frida ottengo sempre il permesso di raccogliere fiori che porto alla baracca dove c’è l’altarino col bel quadro della Madonna regalatoci dal colonnello.
Col guadagno di questo periodo pago un piccolo debito di venti franchi, compero l’orologio "80 fr." e compro un bel paio di scarpe nere "40 fr.".

Mario a sinistra

Il giorno 21.6.1944 noi della 1ª scuderia regaliamo al nostro tenente Luigi Gianoli un fascio di rose rosse per festeggiare il suo onomastico, è molto contento e ci paga il vermout.
Il 24 giugno, per il mio compleanno, ricevo doppia paga, sigarette, fiori e calze nuove.
L’atto mi commuove, anche qui qualcuno si ricorda di me e attenua la mancanza di coloro che amo».
L’onomastico del Colonnello.
«Il 29 giugno, S. Pietro, decidiamo tutti d’accordo di non lavorare.
Per i cattolici è festa di precetto e poi è l’onomastico del nostro Colonnello, in quel giorno vogliamo dimostrargli la nostra gratitudine e il nostro affetto.
Gli abitanti di Kerzers ci guardano stupiti, non sanno il perché della festa e gli dispiace che non lavoriamo.
Il lavoro è molto e urgente, ma la maggioranza di noi fa festa.
Io e i miei dodici compagni facciamo colletta e col ricavato compriamo un bel vaso di ortensie rosa violette, poi, accompagnate da un biglietto augurale, le mandiamo al colonnello.
Io preparo una bella tovaglia sull’altare, metto i fiori più belli e tengo pronte quattro candele nuove.
Sono soddisfatto, l’altarino adornato così mi piace molto e attendo con impazienza la celebrazione della S. Messa.
In compagnia di Cavadini ed Olgiati ammucchiamo tutti i tavoli nel fondo della baracca, mettiamo in ordine tutte le panchine e attendiamo l’arrivo del cappellano.
Durante l’attesa, fra le due prime baracche, vicino ai giardinetti, un gruppo di soldati canta.
Con loro c’è chi suona la fisarmonica, il mandolino e la chitarra, le canzoni sono belle e suonano con sentimento.
Dalla cucina escono delle folate di un certo profumino che l’odorato ben conosce.
L’appetito è stuzzicato, si vorrebbe prendere piatto e scodella e correre alla mensa.
Ma non è l’ora.
Sono le 9 e 40 e il cappellano arriva seguito dal suo sagrestano, un bravo alpino.
La baracca si riempie, le panchine sono tutte occupate, gli ufficiali prendono posto, al centro c’è il colonnello.
Padre Artero Domenico, missionario della Consolata di Torino, rifugiato anch’egli, dal giorno di Pasqua è il nostro cappellano.
Terminato di indossare i sacri paludamenti, inizia la S. Messa [...].
Per desiderio del colonnello, tutto il secondo squadrone è adunato nella baracca, sul tavolo un raggio di sole investe una lunga fila di bicchierini, sembrano sorriderci e promettono un brindisi.
Dietro di loro delle bottiglie dalle dorate etichette confermano la promessa.
Ai lati del tavolo ci sono gli altri ufficiali e il cappellano.
Il sig. colonnelMario Giambellini fa il bucato lo ci ringrazia per i fiori, gli auguri e offre il vermout.
Il nostro capitano risponde a nome di tutti e viene fatto il brindisi.

Un gruppo di internati

Viene servito un pranzo succulento: zuppa, pasta al sugo, arrosto con patatine fritte, insalata, formaggio, cioccolata e dolci.
Verso le tre nel pomeriggio l’orchestrina attacca e inizia il ballo.
Tutti hanno messo gli abiti migliori e si fa festa con grande scandalo dei laboriosi contadini.
Scende la sera, si erige un piccolo palco dove prende posto l’orchestrina.
I nostri compagni degli altri squadroni arrivano a piccoli gruppi.
Alle 20 inizia la danza, io con Cavadini ed Olgiati serviamo coloro che hanno sete, e sono molti.
Fra una suonata e l’altra un caro compagno di nome Maiellaro "napoletano" canta le canzoni del suo bel paese.
Alle 22 intervengono il comandante svizzero del campo, il nostro colonnello e gli altri ufficiali e in buona armonia la festa giunge al termine.
Alle 23 tutto è in ordine, ma nella nostra camerata il chiasso continua fino alla una».
La raccolta delle ciliegie e la festa a Kerzers.
«Dal 7 al 16 luglio raccogliamo le ciliegie per conto del sig. Hans Schirren, chef del Bureau de la Post di Kerzers.
Al mattino io, Maiellaro e Roland, la graziosa figlia di monsieur Hans, partiamo in bicicletta.
Dopo 7 chilometri siamo a Morat "Murten" e ci inerpichiamo su di un colle.
Nella piccola frazione di nome Bürg, abitano gli ottuagenari genitori di monsieur Hans, due graziosi vecchietti che fanno tutto il possibile per mostrarci il loro buon cuore.
Fuori di casa, spettacolo stupendo, ci sono quattro filari di ciliegi completamente carichi di nere ciliegie.
Ci arrampichiamo su quegli alberi che superano i 25 metri di altezza.
Al sommo mi pare di essere un uccellino e come lui spiccherei il volo nel cielo blu, verso il sud: là c’è l’Italia.
Il sole splende, i giorni volano, dal Jura francese viene un lieve venticello che ci rinfresca e dondoliamo nell’alto come le foglie.
Alla nostra destra vediamo il bel lago di Morat, il castello e le mura turrite con i merli.
Si scorgono la chiesa cattolica, la protestante e la sinagoga ebraica.
Portiamo a casa quintali di ciliegie che servono per fare il kirsc e la marmellata, o da conservare sotto grappa e vendere al mercato.
La paga giornaliera è ottima, a mezzogiorno si mangia bene ed abbondante.
La sera alle 18 si riparte per Kerzers e si cena alla baracca.
Dopo quel lavoro si taglia il grano, la biada, la segale e l’orzo.
Sono giornate di duro lavoro, ma il cuore è felice perché spera in un ormai prossimo ritorno.
Il 25 luglio a Kerzers è festa, hanno eretto un palco per il ballo campestre, ai lati si fa la lotta, dappertutto si balla e si canta.
Alla sera la gelosia per le donne che vanno con gli Italiani si fa sentire, poche parole bastano per generare delle liti e i pugni volano.
Anche in questo campo gli Italiani si fanno notare, però la pace è presto fatta e col giorno seguente si dimentica tutto "almeno in apparenza"».
Il compagno Camar, e la signorina Ella.
«Camar Alfredo è un allegro soldato nativo del Friuli, è un vicino del compagno Celso.
Allegro, spensierato, birichino, prende la vita così come viene e non si preoccupa per il domani.
È un ragazzone poco più giovane di me, sempre pronto allo scherzo e al gioco.
È impiegato al comando italiano e serve alla mensa degli Ufficiali.
Invidio il suo bel carattere, io penso troppo, lui lo stretto necessario.
Alfredo conosce la mia passione per i fiori, vede con quanto amore adorno ogni giorno l’altarino della baracca e mi viene in aiuto.
Spesso facciamo lunghe chiacchierate e la sua compagnia mi piace.
Dormiamo nella stessa baracca, solo la parete ci divide, però è di legno sottile e anche in branda possiamo conversare.
A volte vado di là e si discute sui fatti del giorno, oppure è lui che viene di qua».
La sig.ra Ella S.G.G., Società di Prodotti Agricoli.
«Ella è fidanzata a Camar, parla molto bene l’Italiano ed è gentile con tutti gli internati italiani.
Ci fermiamo volentieri a conversare con lei, è così caro al cuore sentire un discorso nella nostra lingua.
Lei non si stanca, ha per tutti una parola e una frase arguta che danno il buon umore.
Ha una speciale ammirazione per la nostra religione, trova la sua troppo vuota mentre la nostra ha più vita.
Per questo motivo e anche per fare piacere al suo Alfredo mi dà grandi fasci di eleganti gladioli rossi, bianchi e violetti.
Io con grande piacere adorno l’immagine della Madonna.
Sono molto grato per i fiori alla signora Ella che, conoscendo i miei sentimenti, più di una volta ha espresso la sua stima con parole che mi hanno fatto piacere.
Il suo ricordo mi è caro».

Preghiera dell’internato

Il Cappellano si stabilisce al campo, muore un commilitone in un incidente.
«Il 1° Agosto il reverendo Padre Domenico Artero viene a stabilirsi fra noi.
Il ten. Locatelli mi invita ad aiutarlo, sono forse l’unico che sa servire la S. Messa.
La paga è poca, l’incarico lo accetto per l’onore che ho di servire la S. Messa e per la buona occasione di poter offrire a Dio il S. Sacrificio per me e per i miei Cari.
Dal 1° agosto prendo la carica di sagrestano e ordinanza.
L’indennità che il comando Svizzero mi passa è di soli fr. 1,60 al giorno.
Il Padre trova alloggio presso la famiglia Mina e Oscar Hosmann, vicino alla ferrovia.
Queste due ottime persone, nonostante siano protestanti, ci mostrano tutto il loro buon cuore, affetto e rispetto.
Il 26 agosto si sparge la voce che un nostro compagno è morto.
Tornava dal lavoro, guidava il carro carico d’erba con dietro altri internati e civili di Kerzers.
Cantava per dimenticare l’affanno che l’opprimeva, era l’unico dei meridionali che non aveva ricevuto messaggi da casa.
Attraversava un passaggio a livello in aperta campagna, il rumore del carro sul viottolo sassoso, il canto e il pensiero altrove non lo hanno avvertito del pericolo.
Il diretto da Kerzers per Morat giunge in curva, veloce […] e succede l’inevitabile, il treno spezza e spazza.
I cavalli sono illesi, i compagni seduti dietro hanno visto il treno in corsa e d’un balzo sono a terra, salvi.
Frisa Antonio è scaraventato cinquanta metri più avanti […].
Padre Artero, il ten. medico Gasparini Italo ed altri ufficiali lo trovano dopo un po’ di ricerche al chiarore della pila.
È disteso, sembra che dorma.
Niente di rotto, al piede destro manca interamente la suola della scarpa, ma il piede è sano.
La scatola cranica è in frantumi, non si vede nulla, però le dita vi affondano se la si tocca.
Viene portato alla nostra baracca, il medico e il Padre procedono alla pulizia della salma, più tardi gli lavo i piedi, gli metto un paio di calze mie, infilo sotto il capo il mio guanciale nuovo e ricopro il volto con un fazzoletto, lo accomodo meglio che posso.
Diverse persone di Kerzers lo vengono a vedere, portano dei fiori, la loro comprensione per il dolore che ci ha colpiti ci consola.
Ci rechiamo a Liss per il funerale, la guardia svizzera rende gli onori militari e spara 24 colpi di fucile che rintronano sinistramente.
Scende la pioggia, sembra che il tempo voglia versare sulla salma le lacrime dei suoi cari lontani […]» La Compagnia viene trasferita, dapprima a Wahlen, ma poi viene dirottata su Zell.

Mario con la bambola

«Tutto il settore Aare, per ragioni di carattere militare, viene trasferito.
Dove andremo? Il 29 agosto sorge nebbioso e promette pioggia.
Devo partire e lasciare Celso, compagno carissimo che amo come un fratello.
Saluto gli Schvab, i Notz, poi io e il Padre saliamo sul camion.
Fra la legna e le cucine da campo sembriamo due zingari.
Più si va, più sento il dolore di lasciare Kerzers.
Piove forte, ci rifugiamo sotto un pezzo di telo e recitiamo il Rosario.
Dopo una sosta a Gümmenen, arriviamo in vista di Berna [...], ma a Brümplitz si devia a sinistra e si scende, attraversiamo su un alto ponte il fiume Aare, poi si sale e finalmente arriviamo in un paesello, da lì si vede Berna.
Wahlen, piccolo paesino protestante, non ci piace.
C’è un solo albergo, non si riesce a trovare il pane e vogliono molti coupons, mentre noi ne abbiamo pochi.
È infestato da grosse zanzare per il lago artificiale formato dal fiume Aare, che si trova alla base del piccolo colle.
Dopo 24 ore dall’arrivo, appena terminato di accomodare tutto il bagaglio del Padre, ci giunge l’ordine di tenerci pronti per una eventuale partenza; rifaccio il bagaglio e attendiamo.
Si teme uno sfondamento sul confine francese da parte degli alleati e il ten. Locatelli ci dice: "Chi ha abiti borghesi li tenga a portata di mano, non si sa mai".
Nell’attesa passano tre giorni.
Finalmente si parte, andiamo a Brümplitz.
Lì un treno speciale ci accoglie.
Partiamo e ci fermiamo a Berna, siamo tutti ai finestrini, le rosse cravatte svolazzano.
Nell’illusione del rimpatrio ci sentiamo felici e cantiamo.
Al nostro passaggio porte e finestre si aprono.
Se ci mandassero nel Canton Ticino o nel Canton Grigioni! Pensiamo che saremmo vicini alla nostra cara Patria e chissà, poter tentare una fuga, raggiungere i patrioti.
Quante speranze, quante illusioni.
Il treno fila veloce, passiamo Langhental, Walhusen, attraversiamo luoghi lugubri, aridi e finalmente il 2.9.1944 arriviamo a Zell, Canton Luzern.
Riempiamo il palazzo scolastico, leviamo i banchi e si alloggia alla meglio.
Il Comune ci fa portare la paglia, che per il tempo è più bagnata che asciutta.
Il giorno seguente è domenica.
Con sorpresa constato che la chiesa di fronte alla scuola è cattolica e la gente va a Messa.
Pure noi alle 11 entriamo e il Padre celebra.
Il sole splende e con gioia curiosa si fa la prima visita al nuovo paese.
Poche case allineate sulle due strade, niente di speciale, eccettuati la bella chiesa e il ben tenuto cimitero che la circonda.
È molto più pulito di Kerzers.
Intorno ci sono delle colline con magnifiche foreste, ma il paese si trova in un buco e l’orizzonte è ristretto».
La vita a Zell negli ultimi mesi di esilio.
«La signora Irma Rast, insegnante della scuola secondaria, è una piacevole conoscenza, parla bene l’italiano ed è l’unica persona che si occupa degli Italiani internati.
L’accoglienza in generale è abbastanza fredda e ogni giorno che passa rimpiangiamo sempre più i nostri vecchi campi.
Il Padre finalmente trova una camera dal parroco del Paese.
La mia vita qui è abbastanza movimentata, devo andare nei campi di Hüsvil, Ufhusen, Leimbütz per la celebrazione della S. Messa.
A Ufhusen c’è il compaesano Fioroli Gianni e qui con me Campagnani Piero che mi cura sempre il buon andamento delle scarpe.
Qui fa abbastanza fresco, nei giorni più belli si fanno lunghe passeggiate nelle vicine foreste.
Dopo dieci giorni ecco l’annuncio dell’arrivo dei miei compagni.
Non sono sicuro dell’ora e a ogni treno che passa scruto con ansia febbrile.
Alle 15 e 40 odo dei canti, il treno rallenta, si ferma e con grande entusiasmo li vedo scendere.
C’è anche il cane Bill, mi sembra di rivedere la mia famiglia.
Nonostante i bisticci, ci vogliamo bene e li amo come fratelli.
Carissimo Celso! Finalmente sei arrivato.
Mi sento meno solo, siamo come due fratelli e la sua presenza mi è tanto cara.
Ora che mi sei vicino con più forza porto la mia croce […].
L’autunno trascorre monotono e grigio.
Ottobre, grande raccolta e buona mangiata di funghi.
Il lavoro è pochissimo e alcuni soldati ritornano ai vecchi campi, vanno a contratto dai contadini e partono.
Fra i molti, Loffi, De Rui, Bossi, Fugazza, Scaccabarozzi.
Piano piano acquisto la fiducia del Pfarrer Anton Wigger.
Il giovane vicario Adolf Huber è gentile e parla bene il francese, così chiacchieriamo un po’.
La chef de cüche fraulein Maria Brünner mi mostra il suo buon cuore e ogni tanto arriva qualche coupons für brot.
L’altra fraulein, Maria Hodel mi aiuta nel lavoro e nello stirare la biancheria.
Mi viene concessa di frequente la camera da bagno e così senza spesa posso fare il bagno nell’ampia vasca.
Da molti giorni e notti si ode l’eco frequente delle bombe e dell’artiglieria pesante tedesca.
Il maresciallo Von Ründstet il 12 dicembre ha scatenato una grande offensiva e con nostro dispiacere gli Alleati debbono indietreggiare.
Arriva il S. Natale, il mio cuore soffre e vorrebbe essere vicino ai suoi cari».

Il funerale di Frisa Antonio

Il funerale di Frisa Antonio L’ultimo Natale da internato.
«Il giorno 23 confeziono, aiutato da altri 5 compagni, 285 sacchetti dono, con frutta e sigarette per tutti i soldati del nostro gruppo.
Alla spesa contribuiscono il comune di Zell, il Parroco, la Nunziatura Apostolica di Berna e i nostri ufficiali.
La vigilia di Natale nel grande salone del Lindengarten preparo un bell’altare, porto il calice e la patena d’oro, la pisside e tutto l’occorrente, esco a prendere ancora delle ostie, temo che non siano sufficienti.
Il Padre gira fra le camerate e confessa.
Alle 20 inizia una tombola con premi in denaro indetta con i soldi offerti dal paese e gli utili del nostro spaccio.
Fuori si ode ancora il rombo del cannone.
Penso ai miei fratelli, a mia moglie, ai miei cari vecchi.
Come staranno? Che ne sarà di loro? Sono sette i Natali che non ho potuto trascorrere con i miei e quest’anno sono più addolorato del solito […]; è mezzanotte, l’albero di Natale sfavilla di luci, scopro il Divin Pargolo e la S. Messa inizia.
Il Padre tiene una bella predica […], siamo commossi, la sua parola ci tocca in fondo al cuore, qualche lacrima brilla […], alla S. Comunione dono a tutti un’immagine ricordo, canto il Pange Lingua e il Te Deum Laudamus Domine.
La mia voce è un po’ roca, la febbre mi ha ripreso.
Treleani Celso viene tutto sorridente a farmi gli auguri di Natale.
Burbero, declino gli auguri e gli faccio notare che mi sembrano fuori posto.
Lui si arrabbia, inveisce e da quel momento non mi parla più.
Al dolore si aggiunge altro dolore.
Che bel Natale! Così Capodanno e via […].
I giorni passano monotoni, scende dal cielo sempre bigio una gran quantità di neve, poi fa un gran freddo, abbiamo raggiunto i 22 gradi sotto zero.
Il freddo eccezionale dura 15 giorni, dal 2 febbraio il tempo si fa migliore e in breve la neve scompare.
Cosa straordinaria, il sole splende tiepido.
Occhieggiano i primi bucaneve e le prime margherite.
I salici mettono i loro boccioli di lanugine vellutata, il cuore vuole aprirsi alla speranza.
La carne sente la primavera e la privazione del suo amore.
Diciassette mesi sono passati senza alcuna notizia della famiglia […], cosa sarà di loro? E tu, Fiorentina, come stai? Dove sei? Il mio cuore non dubita di te, ti cerca, ti vuole […].
molti chilometri ci separano […], nonostante il lungo tempo e il grande spazio che ci divide, i miei sentimenti sono sempre uguali.
Ho scritto diverse poesie, frutto di momenti dolorosi e di speranza.
Molte, con rabbia e dolore, le ho date alle fiamme in un momento di grande amarezza.
Oggi mi spiace, ma ormai […].
Ne ho avanzata qualcuna e la tengo per ricordo.
Ho fatto disegnare un quadretto e ho composto una frase che rappresenta tutto lo spirito dell’esilio vissuto nella speranza di giorni migliori». 25. 2. Anno Domini 1945.

La chiesa di Zell

«Torno da una passeggiata fatta ad Ufusen con Campagnani e Bresciani.
La giornata è magnifica, il sole brilla in tutto il suo splendore, il cielo è terso, azzurro, l’aria è tiepida.
Fatto straordinario, Celso viene, mi invita a dimenticare, io accetto volentieri e siamo di nuovo buoni amici.
Con lui al fianco mi sento più forte, ci confortiamo a vicenda, così i duri e lunghi giorni dell’esilio se ne vanno nell’archivio della memoria con più facilità.
Celso! Sii felice, la buona Fortuna ti sia propizia e che il Signore ci faccia ritrovare un giorno in cielo».
Ormai la guerra sta per finire e il rientro in patria è prossimo, ma di questo il soldato di cavalleria Giambellini Mario non ci parla.
Il suo diario di guerra termina qui.

by Emilio oliba