Voci della seconda guerra mondiale

GLI UOMINI CHE HANNO RICOSTRUITO L’ITALIA IL PARTIGIANO GIULIO

Lupi delle Langhe - Giulio Galuzzi, terzo da sinistra

Giulio Galuzzi, classe 1924.
L’ho incontrato in una sera uggiosa di novembre nella sua casa in località Volta di Colmegna, disteso sul suo letto, con il bio-generatore di ossigeno accanto e l’inalatore costantemente attaccato alle narici.
Sta scontando i postumi di una vecchia pleurite contratta in giovane età, quando, insieme alla sua formazione partigiana, braccato dai Tedeschi, sgattaiolava qua e là, col moschetto in spalla sulle colline delle Langhe.
Stigmate di un passato che non si cancella, che tuttavia non gli ha impedito di gestire un negozio in paese prima della meritata pensione.
Nel grande letto matrimoniale il posto a lato è irrimediabilmente vuoto: la moglie Lina lo ha lasciato per sempre qualche anno fa, ma le lenzuola fresche di bucato sembrano attendere da un momento all’altro un impossibile ritorno.
Lina era una donna solare, che aveva condiviso il lavoro con Giulio ed aveva una parola buona ed un sorriso per tutti.
Non era mai stanca, sembrava invulnerabile.
Invece un brutto giorno è crollata come un albero colpito dal fulmine.
Dopo questa inattesa bufera, col passar del tempo, l’animo di Giulio ha ritrovato una sorta di faticoso equilibrio interiore.
Le acque intorpidite e agitate dalla burrasca si sono placate e nel nitore trasparente ora emergono possenti i ricordi.
Ricordi di un passato lontano che la memoria ha conservato a riprova di un’identità nascosta che non muta con l’inesorabile trascorrere del tempo.
Soldato di leva a 19 anni, nel 1943, Giulio viene destinato a Bari, più precisamente a Trani.
Uno zio ufficiale, presagendo quello che sarebbe capitato, si adopera presso il distretto militare perché venga assegnato ad un battaglione in Italia meridionale: là, sotto un’eventuale protezione degli alleati, sarebbe stato al sicuro e avrebbe evitato di dover subire le conseguenze di una guerra che ormai si profilava come una partita inevitabilmente persa.
Ma le cose non vanno assolutamente così.
Dopo un viaggio pieno di imprevisti, Giulio, con la valigia di cartone, tenuta insieme Lupi delle Langhe - Giulio Galuzzi, terzo da sinistra da un legaccio di corda, giunge finalmente a destinazione.È un paesaggio desolato quello che scorge lungo il suo cammino, una terra oltraggiata, che reca ancora le ferite dei recenti bombardamenti.
Profondi squarci dove giacciono resti umani a cui non è stata data pietosa sepoltura.
Poi il solito monotono tran tran della naia, fino al quel fatidico 8 settembre 1943.
Un carro armato svelle i cancelli della caserma e incomincia a sparare all’impazzata.
Fuggi fuggi generale da parte degli ufficiali, disorientamento diffuso nella truppa, timori incontrollati.
Anche Giulio con alcuni compagni decide di mettersi in salvo.
Che cosa immaginare di più sicuro della propria casa e del proprio paese? Non c’è tempo da perdere: con ogni mezzo a disposizione, magari anche a piedi, occorre tornare sui propri passi.
A Termoli con una barca a vela raggiunge la costa adriatica.
Con sua grande sorpresa i Tedeschi non oppongono resistenza al suo rientro al Nord: sperano che gli sbandati provenienti dal sud possano arruolarsi tra le file dell’esercito della neonata Repubblica Sociale di Salò.
Un lungo tragitto a piedi per tredici interminabili giorni, poi da Ancona una tradotta lo riporta a Milano.
Una città spettrale, paralizzata dal coprifuoco, incombe sinistramente su di lui.

Giuglio Galuzzi - attestato

Riesce a malapena a salire su una garitta di un treno diretto a Luino, ma con suo grande stupore si accorge che all’interno vi è un altro ospite.
I due nella penombra si guardano con sospetto, poi giunti a Sangiano, quando un raggio di luce si insinua in quell’angusto spazio, la tensione si stempera: Giulio riconosce un suo vecchio compagno di scuola di Laveno, Carluccio Arioli, proveniente da Trieste.
Siamo ormai sul finire del mese di settembre: il rientro a Colmegna fa nascere nuovi e per ora insolubili problemi.
Giulio vaga per i boschi soprastanti in cerca di castagne e di funghi, ma in realtà per sottrarsi ad occhi indiscreti e sospettosi.
Bisogna, infatti, guardarsi da tutto e da tutti.
Di fatto si tratta di una renitenza alla leva insostenibile, ma la soluzione sembra a portata di mano: un’autosegregazione presso il ristorante «La Corona» di Laveno, gestito dallo zio paterno Guido Galuzzi.
La situazione diventa però di giorno in giorno sempre più critica: Mussolini minaccia la pena di morte per coloro che si sottraggono al servizio militare e le prime avvisaglie non tardano a farsi sentire con espliciti avvertimenti nei confronti del padre e della famiglia.
È la mamma che lo raggiunge a Laveno e, pur a malincuore, lo convince a presentarsi al distretto militare per evitare il peggio.
Giulio si piega alla dura necessità di salvaguardare l’incolumità della propria famiglia.
Viene destinato a Novara dove la gran massa degli sbandati dell’esercito regolare italiano contribuisce alla formazione di nuove divisioni.
Poco dopo le truppe subiscono una forzata deportazione in Germania, in una località non facilmente identificabile, nella Foresta Nera, nel campo di addestramento militare di Grafenwöhr.
Tre mesi di isolamento senza la possibilità di far pervenire notizie alla famiglia.
Poi, nell’estate del ‘44, il rientro in Italia e precisamente in Liguria vicino ad Albenga.
Tre sono le divisioni in cui si articola il nuovo esercito: Monte Rosa, Italia, S. Marco.
Giulio fa parte di quest’ultima.
Obiettivo strategico: fronteggiare le truppe alleate.
Garessio, Noceto, Ceva, Sale delle Langhe sono le tappe che contrassegnano i progressivi spostamenti dei soldati della RSI.
Intanto maturano grandi eventi.
Nel marzo 1944 uno sciopero generale, l’unico nell’Europa sotto la dominazione nazifascista, mette ulteriormente in luce la fragilità di un sistema oppressivo basato sulla violenza e sul terrore.
Il Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia favorisce la costituzione, specialmente in montagna, di bande armate, che trovano una forma di inquadramento più rigoroso: unità comprendenti diverse centinaia di uomini in grado di organizzare azioni di guerriglia più vaste ed articolate.
Anche le milizie della traballante repubblica sociale considerano ormai inevitabile un cambio di rotta onde evitare di rendersi complici dei continui massacri delle popolazioni locali.
Accade così che una mattina un piccolo nucleo di partigiani si presenta all’accampamento della S.
Marco per condurre i circa 300 militi nella zona di Murazzano, ovviamente sulla base di contatti preliminari con gli ufficiali a cui non sfugge la gravità del momento.
Tra loro ci sono anche due polacchi e due tedeschi, uno dei quali, cammin facendo, tenta di sottrarre un mitra a un partigiano per farsene scudo in caso di un’improbabile fuga.
Prontamente bloccato, verrà fucilato il mattino successivo.
Diverso il comportamento dell’altro tedesco, che si strappa le mostrine ed accetta di aggregarsi al gruppo.
La prima esigenza è quella di costruire una baracca in località Pedaggera, nella zona di Castellino di Ceva come base per i nuovi arrivati che vengono però sparpagliati nelle cascine della zona per presidiare il territorio.
Di importanza vitale il sostegno della popolazione locale che li rifornisce costantemente di cibo e segnala tempestivamente le azioni di rastrellamento da parte dei nazifascisti.
Tra le staffette, in particolare le ragazze che portano le bestie al pascolo per avvistare da una posizione elevata qualsiasi movimento sospetto.
Tra di loro perfino una maestra di scuola che insegna a Cornati.Le Langhe: un esteso sistema collinare, un territorio ondulato, coltivato a vigneti nella parte più bassa e ricoperto di boschi in quella più elevata.
Giulio le ricorda così, riferendo uno degli episodi cruciali della sua vita da partigiano, quando si vide passare la morte accanto.
Mentre attraversa un vigneto portando sulle spalle un pesante carico di munizioni, improvvisamente dall’alto di una collina un commando tedesco incomincia a sparare all’impazzata contro di lui.
Zigzagando tra i filari, con la forza della disperazione, ma senza perdere la necessaria lucidità per disorientare gli sparatori, approda finalmente in un avvallamento poco visibile dove rimane assolutamente immobile, nonostante il timore che il cane da guardia dei due tedeschi possa individuarlo.
Cessato l’attacco, Giulio si trascina carponi in una valletta sottostante dove scorre un ruscello d’acqua fresca, quella che ci vuole per la sua gola riarsa e per ritemprare le membra madide di sudore.
Ma la soddisfazione per lo scampato pericolo è di breve durata: dietro un cespuglio Giulio scorge un volto dai tratti indefiniti, irriconoscibile a quella distanza.
«Sono in trappola» dice tra sé, ma è fermamente deciso a vendere a caro prezzo la sua pelle.

Croce al merito

Poi finalmente si accorge che si tratta di un compagno di sventura, anche lui sbandatosi e sopravvissuto a quel terribile attacco.
Una gioia profonda lo invade e si sente rinascere dopo quello spaventoso agguato.
La sua gracile costituzione però non regge a quella vita raminga, scandita ogni giorno da improvvisi spostamenti, da fughe precipitose, da un’alimentazione sommaria e talvolta insufficiente.
Una sera la febbre lo divora, il respiro si fa affannoso, mentre una tosse secca ed insistente non gli concede tregua per tutta la notte.
Occorre fare qualcosa.
In queste condizioni risulta impossibile trascinarlo da un cascinale all’altro.
I genitori di un figlio partigiano, rischiando grosso, gli offrono ospitalità.
Il medico del paese, sfidando anche lui il pericolo di una possibile ritorsione, si prende cura dell’ammalato e lo sottopone più volte a drenaggio toracico.
Poi un giorno una staffetta preannuncia un imminente rastrellamento.
Per Giulio e la famiglia ospitante potrebbe essere la fine.
Un compagno se lo carica però sulle spalle e se lo trascina a fatica nel sottotetto della chiesa di Costa di Priero.
Qui sarebbe stato al sicuro, insieme ad altri due partigiani feriti.
I Tedeschi non sembrano essere convinti di quell’apparente calma esteriore, nutrono plausibili sospetti che la gente solidarizzi con i «ribelli» ed intanto, a scopo intimidatorio, compiono ogni genere di razzie.
Al peggio però non c’è mai fine: un gruppo di loro si attenda sul sagrato della chiesa, proprio in corrispondenza dell’apertura oculare del sottotetto.
Giulio non riesce a trattenere i colpi di tosse e i compagni cercano di soffocarli premendogli davanti alla bocca il cuscino.
Finalmente i canti sguaiati della milizia tedesca annunciano la fine di un incubo interminabile.
Con le galline sequestrate, conficcate su lunghe frasche, scendono a valle: Giulio è salvo.
Qualche tempo dopo però, inatteso, il pericolo si ripresenta drammaticamente, coi possibili tragici risvolti.
Disteso sul suo letto, dalla finestra, Giulio scorge la lunga teoria di elmetti che sfilano per le vie.
«È finita questa volta» dice fra sé, perché i controlli si fanno più serrati e non risparmiano nessuna famiglia.
Luigi, il suo ospite, tuttavia non si perde d’animo.
Con un largo sorriso apparentemente complice, accoglie i due Tedeschi incaricati del sopralluogo ed offre loro una bevuta ristoratrice nella sottostante cantina, dove non lesina traboccanti boccali di vino attinti da botti diverse.
Ritemprati dal nettare di Bacco i due militi se ne vanno allegramente cantando per quell’inatteso, rinfrancante ristoro.
Giulio ricorda con commozione il suo Natale del ’44: solo, infreddolito, in mezzo ad una strada, col suo fucile sulle spalle, a far la ronda, mentre tutti se ne stanno rintanati nel tepore delle loro case.
Un pensiero angoscioso gli serra la gola.
Certo che cosa si può sperare in un periodo di ristrettezze.
Forse, però, a casa sua, alla Volta, in quel momento i suoi si apprestano a celebrare un Natale diverso, anche se purtroppo non sanno neppure dove sia andato a finire quel figlio.
Vane ricerche di informazioni attendibili, ma sostanzialmente nulla di concreto: solo qualche vago indizio da parte del Piero Brizzio che, lavorando presso la mensa ufficiali di un ristorante del centro di Milano, capta la notizia che la divisione S.
Marco si è volatilizzata dandosi alla macchia.
Dai campanili delle chiese poste quasi a baluardo sui colli si rincorrono concerti di campane a festa, ma Giulio è costretto a rimanere inchiodato a quel suo destino ingrato che lo ha trascinato lontano da tutto e da tutti, perfino dai suoi compagni.
Poi un uomo e una donna a passo lento avanzano verso di lui, gli augurano buon Natale e procedono oltre.
«Quale buon Natale?» mormora tra sé e sé il giovane partigiano.
All’improvviso però anche per lui, come in una favola a lieto fine, si apre uno spiraglio di luce: è il miracolo del Natale, del suo Natale.
«Ragazzo hai mangiato?» gli chiede uno dei due: «Sì, ieri sera, quando mi hanno portato il rancio i miei compagni.
Oggi non so...».
«Ebbene – prosegue l’uomo – oggi sarai ospite a casa nostra!» Una gioia indicibile lo invade: anche per Giulio il Natale del ’44 sarà per sempre un lieto ricordo da conservare tra le cose più preziose che offre la vita.
Primavera 1945: la liberazione, la fine della guerra, la nascita di una nuova Italia.
Soltanto a maggio Giulio tornerà a casa per riappropriarsi di una giovinezza negata dagli eventi di una guerra fratricida.
Porterà per sempre le ferite di quell’esperienza amara, ma nel contempo esaltante.
D’ora in poi potrà dire: «Anch’io ho costruito la nuova Italia!”
Giulio Galuzzi ci ha lasciati nel 2013


by Emilio oliba