Voci della seconda guerra mondiale

DINO OSSOLA, LA GIOVANE STAFFETTA DEL S. MARTINO

Dino Ossola

Aveva solo tredici anni e mezzo Dino Ossola, classe 1930, quando fu costretto dalle circostanze ad assumersi un compito assai gravoso per la sua età.
La sua storia inizia dopo l’8 settembre ’43, quando il fratello Luigi, classe 1922, militare a Vercelli, nel clima di sbandamento generale determinato dall’armistizio, torna a casa.
Trascorsi alcuni giorni in famiglia, di fronte all’incertezza della situazione, insieme ad altri otto compagni, decise di varcare la frontiera nei pressi di Marchirolo, per chiedere asilo nella vicina Svizzera.
Dopo vari inutili tentativi, in quanto le frontiere erano state chiuse, furono ospitati da una famiglia di Ganna, in attesa di tempi migliori.
Si rendeva quindi necessario rifornirli di viveri, impresa non facile per un adulto, ma non per un ragazzino come lui.
Se lo avessero scoperto, avrebbe sempre potuto dire che si recava da una zia, che i genitori non erano più in grado di provvedere al suo sostentamento, perché avevano altre bocche da sfamare.
Da Voltorre, attraverso i boschi, da Cocquio, Caldana, Orino e Brinzio, Dino col suo zaino sulle spalle raggiungeva il gruppo dei renitenti alla leva in località Mondonico.
Qualcuno ad un’ora stabilita gli veniva incontro.
La situazione era sicuramente insostenibile, anche perché la via di fuga verso la Svizzera era ormai assolutamente preclusa.
Luigi, che nell’esercito aveva prestato servizio come carrista, fu pertanto costretto ad accettare la proposta tedesca, pubblicizzata attraverso un bando affisso su tutti i muri, di un lavoro presso un’officina meccanica per la produzione di materiale bellico.
In tal modo poté evitare di prestare servizio nella Repubblica Sociale di Salò.
Fu pertanto destinato a Innsbruck.
Si salvò e poté ritornare in patria alla fine della guerra.
A Voltorre, racconta Dino Ossola, si era costituito, presso la casa dello zio Giovanni Ossola, in via Case Nuove, un centro di coordinamento, una sorta di quartier generale per il reclutamento degli uomini che si sarebbero acquartierati sulla vetta del S. Martino.
Giungevano a Voltorre giovani da Milano, Gavirate, Oltrona, Gallarate, Busto Arsizio, Legnano, ecc.
Erano prevalentemente uomini provenienti dall’ambiente militare o dai campi di prigionia inglesi e americani.
Un quartier generale diretto da un certo conte Calvi, originario di Ferrara, che soggiornava a casa della zia Pierina Alioli, dove, circa una quindicina di giorni dopo l’8 settembre, aveva anche trasferito i suoi mobili, peraltro di un certo valore.
Era un uomo dall’apparente età di 50 anni, claudicante, avendo la gamba destra più corta dell’altra, aveva un portamento nobile.
Sulla precisa identità di questo conte Calvi, Dino ricorda soltanto che era un proprietario terriero di Ferrara, un uomo comunque sensibi- le alle istanze sociali del suo tempo.
È da escludere che si trattasse del conte Giorgio Calvi di Bergolo, genero di Vittorio Emanuele III, marito della principessa Iolanda Margherita di Savoia.
Si trattava probabilmente di un nome fittizio di battaglia.
Dopo l’esperienza di Ganna, Dino venne indicato come il soggetto più idoneo a portare messaggi alla formazione del S.Martino.
Il ragazzo conosceva bene la zona.
Di gracile costituzione, durante la sua fanciullezza aveva sofferto di una sorta di anoressia che gli impediva di trattenere Dino Ossola il cibo nello stomaco.
Le radiografie non avevano evidenziato alcuna patologia particolare.
Il medico si era limitato a consigliare un cambiamento d’aria.
Fu così che Dino approdò in quel di Duno, insieme con la sorella Matilde, dove, presso la famiglia Calori, trascorreva lunghi periodi di vacanza che gli giovarono e gli fecero ritrovare la salute.
Dino ricorda la buona signora Mansia che gli faceva da mamma e il marito, ur Battista.
Durante l’estate, Duno si rianimava.
La popolazione stanziale era molto limitata: circa 30/40 famiglie.
Gli uomini lavoravano prevalentemente in Francia come imbianchini, muratori, falegnami e carpentieri.
Erano molti i bambini che trascorrevano le loro vacanze in questo ridente paese a mezza costa, raggiungibile attraverso la strada carrozzabile, la mulattiera ed una scorciatoia chiamata la brevissima.
Ebbe così modo di conoscere i tortuosi sentieri che attraversavano le zone boscose del versante sud del S. Martino.
Nessuno meglio di lui pertanto avrebbe potuto espletare quella missione così delicata.
L’ordine perentorio, nel caso di un imprevisto controllo di qualche pattuglia, era quello di ingoiare i messaggi cartacei senza indugio.
Dino ricorda di essersi incontrato più volte con un ragazzo della sua età, il cui nome di battaglia era Giampiero, ma per l’amico era Ninoeu, Dino invece era Ninin.
Un ragazzo forse proveniente da Varese che, nonostante il parere contrario dei genitori, aveva ad ogni costo voluto salire a combattere con i partigiani del S. Martino.
Dino arrivava a Cerro, sopra Caldana, scendeva a Cuvio e saliva da Cuveglio verso la vallata del Turigiun, tra il S.
Michele e il S. Martino e giungeva poi nei pressi de “Le Marianne”, osteria aperta solo d’estate.
Più sopra incontrava Giampiero o altre staffette in sua sostituzione.
Il riconoscimento avveniva attraverso una parola d’ordine ed i messaggi erano scritti su pagine di quaderno.
Dopo la fine della battaglia, un gruppo di circa quaranta partigiani sopravissuti, vagò per una quindicina di giorni nei cunicoli della montagna tra Cuveglio e Laveno, una sorta di labirinto difficilmente espugnabile, nella speranza che si creassero le condizioni per l’attraversamento del lago in vista di una possibile aggregazione alla Brigata Moscatelli, attiva sul versante piemontese.
La situazione era però alquanto difficile, a causa della rigida sorveglianza esercitata dai fascisti e dai Tedeschi.
Quando cominciarono a scarseggiare i viveri, decisero di scendere a piccoli gruppi a Voltorre per non suscitare sospetti.
Qui, sparsi in diverse case e cascine, si nascosero circa 22/26 partigiani.
Erano conosciuti esclusivamente per il loro nome di battaglia.
Dino ricorda un certo Busti grossi, un giovane corpulento che in seguito venne ucciso ed un altro soprannominato Pretinella, con riferimento al suo passato da seminarista.
I partigiani erano soliti ritrovarsi insieme in una casa colonica di una signora, dove le ragazze del paese si recavano per ricamare o per imparare a cucire.
Il conte Calvi si avvaleva della collaborazione di una donna tedesca che si chiamava Marta, ospitata presso l’osteria Campiglio che era anche una privativa.
Marta era una specie di doppiogiochista che in prima istanza difese la causa dei partigiani.
Dino la ricorda come una donna energica e determinata.
Catturata in seguito dalle SS però, sottoposta probabilmente ad un serrato interrogatorio e a non improbabili torture, parlò e finì per denunciare il conte Calvi che terminò i suoi giorni nel campo di concentramento di Buchenwald.
Era l’ultima settimana del gennaio 1944: un inverno gelido, con temperatura molto al di sotto dello zero.
Una calma insolita e forse le condizioni atmosferiche avverse avevano indotto i partigiani ad indugiare nei loro nascondigli e a rimandare la partenza sine die.
Evitavano anche di prendere precauzioni.
La notte di sabato 29 gennaio era illuminata da un inconsueto chiaro di luna: sembrava giorno.
Verso le tre del mattino, giunsero in paese 350/400 fascisti e tedeschi che fecero irruzione nelle case terrorizzando uomini, donne e bambini.
Una retata che durò fino alle otto del mattino.
I militi erano decisi a scoprire con ogni mezzo a loro disposizione il nascondiglio dei partigiani, la cui incolumità era stata fin qui garantita da un impenetrabile silenzio.
Una marmaglia che sembrava impazzita.
Dino, attirato da questo schiamazzo, uscì sul balcone di casa e poco dopo venne strattonato in malo modo e sottoposto ad uno stringente interrogatorio.
Vista la sua esitazione, una SS gli puntò la pistola dietro la nuca per costringerlo a parlare.
Il ragazzo tremava come una foglia, ma non cedette.
Circa 70/75 persone furono concentrate nel cortile di un cascinale di Nosè, una frazione di Voltorre, ad una temperatura di 13/15 gradi sotto zero.
Alcuni partigiani si salvarono inerpicandosi nelle canne fumarie.
I soldati non vollero lasciare nulla di intentato e con le baionette ispezionarono l’interno dei camini.
Dopo un profluvio di minacce e di intimidazioni, i prigionieri sospetti vennero trasferiti alla XXX Brigata nera “Ettore Muti” con sede a Varese e successivamente nella famigerata Villa Dansi, nota anche come villa degli orrori per le torture a cui venivano sottoposti gli oppositori del regime.
In una cascina verso il lago sulla strada di Gavirate verso la Schiranna, a circa 30 metri dalla riva del lago, durante la notte si nascondevano sette partigiani che verosimilmente non si erano resi conto della gravità della situazione.
Il padre del ragazzo, Gioele, suo malgrado, fu ancora una volta costretto a far ricorso alla destrezza del figlio, già avvezzo a simili imprese.
Infatti, se si fosse recato personalmente da loro, avrebbe destato indubitabili sospetti.
Il paese era stretto in una morsa di fuoco da quaranta mitragliatrici, pronte a far fuoco contro chiunque avesse tentato qualche mossa sbagliata.
Al di là delle cascine, tra i campi si snodava una rete di fossati abbastanza profondi, circa un metro e mezzo, ma, durante quella notte maledetta, l’acqua aveva creato una sconnessa pista di ghiaccio sulla quale era difficile reggersi in piedi.
L’impresa si presentava assai ardua, anche perché la notte di luna rendeva visibile ogni movimento.
Dino, forse per incoscienza o per una sorta di esaltazione giovanile che lo proiettava anticipatamente verso l’età adulta, strisciando come un cane da preda, evitando perfino di muovere un filo d’erba, riuscì a raggiungere il cascinale, eludendo il raggio d’azione di una mitragliatrice.
I partigiani erano immersi in un sonno profondo e Dino faticò non poco per risvegliargli.
Presa coscienza di quello che stava accadendo, in men che non si dica si dileguarono e si nascosero nei canneti nei pressi del lago.
Dino non se la sentì di ritornare immediatamente sui suoi passi, trascorse pertanto la notte nella cascina abbandonata dai partigiani, anche se era appena a 30 o 40 metri fuori dal cerchio, stretto dalle mitragliatrici.
Dino ricorda alcuni partigiani dell’ultima ora, «voltagabbana» senza scrupoli, capaci di riciclarsi con anguillesca e camaleontica abilità e di mettersi al servizio del vincitore di turno.
Un tale, che cingeva il fazzoletto rosso al collo dopo il XXV aprile, si era addirittura reso responsabile di aver mandato in campo di concentramento due persone della zona.
Il 5 aprile 1944, un partigiano a Comerio tese un agguato al tenente della Brigata Nera, Nilo Martinoia che due volte la settimana si recava a Varese, per consultazioni.
Dopo una breve sparatoria, Martinoia fu colpito a morte.
Il partigiano materialmente responsabile dell’omicidio fuggì in bicicletta verso il lago.
Fascisti e militi della X MAS si misero sulle sue tracce, su indicazioni di compiacenti testimoni.
Nel frattempo in una barca sul lago pescavano tranquillamente un ragazzo di 23 anni che era stato esonerato dal servizio militare perché zoppo e il proprietario dell’osteria Campiglio.
Quando i due approdarono a riva verso le tre del pomeriggio, si presentò loro un individuo in divisa militare con l’intenzione di arrestarli.
Il Campiglio, ignorando quanto era successo, per evitare la cattura, prese il cesto che conteneva i pesci e glielo rovesciò in testa, poi a gambe levate salì ai Beut, una frazione sopra Nosè, mentre il compagno trovò rifugio in una vicina casa.
Si trattava ora di escogitare un piano per nasconderlo.
Si optò per una catasta di fascine sotto la quale fu ricavato un piccolo spazio dove poté rifugiarsi.
Un gruppo di fascisti e di militi della X MAS, avendo avuto dai soliti delatori informazioni più circostanziate circa il tragitto compiuto dal Campiglio verso la frazione Beut, minacciarono di dar fuoco a tutte le abitazioni se non lo avessero consegnato.
Nella deprecabile eventualità di un incendio, anche il Campiglio sarebbe bruciato sotto le fascine.
Tutti gli abitanti elevarono una vibrata protesta.
Dopo un’accurata ispezione, alla fine le squadracce desistettero dal loro proposito.
Avendo un’osteria, il Campiglio doveva necessariamente tornare a casa al più presto, diversamente la sua assenza avrebbe alimentato possibili sospetti.
Fu così che si decise di vestirlo da montanaro e di porgli un carico di legna sulle spalle.
Poté finalmente rientrare a casa propria indisturbato dalle milizie che presidiavano le strade.

by Emilio oliba