Voci della seconda guerra mondiale

MARIO E REMO PASSERA LA FORZA DELLE IDEE

La tessera del fascio non l’aveva voluta Mario Passera, classe 1888.
Aveva detto no, senza infingimenti, fedele alle sue idee socialiste.
Sapeva però che prima o poi gliela avrebbero fatta pagare.
Fin dagli anni ‘20, Mario era titolare di tre licenze che gli consentivano di trasferire i passeggeri dalla stazione di Luino a Germignaga, una sorta di servizio taxi a valenza limitata.
Era stato inoltre il primo ad istituire un servizio di trasporto pubblico che, partendo dalla stazione ferroviaria internazionale e dalla ferrotranvia varesina, raggiungeva la Rotonda di Germignaga e piazza Roma, proseguendo fino a Brezzo di Bedero.

Mario Passera

La vendetta dei caporioni fascisti non si fece attendere e calò come una mannaia sulla sua impresa di trasporto, costruita a prezzo di tanti sacrifici.
Mario però non si perse d’animo: era o non era un lottatore nato? Non si sarebbe arreso, a qualsiasi costo.
Dalle sue stalle poste sul colle della Canonica di Bedero, ogni mattina di buonora partiva col suo calesse trainato da un docile ronzino ed approdava in città.
Attingendo dal capiente contenitore, con l’apposito misurino, mesceva litri e litri di latte ad una clientela sempre più numerosa ed affezionata.
Stazionava abitualmente davanti al santuario del Carmine, accolto da un allegro vociare.
La sua figura di prezioso dispensatore di un alimento così indispensabile soprattutto per i bambini che non potevano essere nutriti dal seno materno era diventata ormai popolare.
Poi sopravvenne il tempo del razionamento.
Mario si trovò spesso nell’impossibilità di infrangere le rigide disposizioni del servizio annonario.
Gli piangeva il cuore quando il suo sguardo si incrociava con quello implorante di una madre che lo supplicava di darle una razione in più per i propri figli.
Di fronte a questa povertà dilagante, come le acque di un fiume in piena, Mario sentiva ingigantirsi in lui lo sdegno ed il sentimento di repulsa verso il regime.
Alle piazze gremite di folla osannante si era gradualmente sostituito un diffuso senso di timore per le conseguenze nefaste di una guerra dagli esiti molto incerti.
Si profilava all’orizzonte un futuro foriero delle più gravi sventure, come quando nere nubi si addensano nel cielo facendo presagire una devastante tempesta.
Bisognava dunque agire, senza indugio per evitare il peggio.
Era scoccata l’ora delle decisioni coraggiose, di un impegno fattivo anche a rischio della propria vita.

Remo Passera

E Mario non si tirò indietro quando la formazione partigiana Lazzarini gli chiese di nascondere le armi nel suo fienile.
Sapeva di rischiare grosso, ma non poteva sottrarsi all’imperativo categorico di agire nell’interesse comune.
Anche lui voleva dare il proprio contributo per la riconquista della libertà perduta.
Ma come avrebbe potuto mantenere i contatti con le unità operative dislocate in varie località sui monti? C’erano troppi occhi indiscreti che lo sorvegliavano e delatori che lo marcavano a vista, pronti a denunciarlo.
Le prime avvisaglie non erano mancate, quando una notte la casa venne messa a soqquadro dalle squadracce fasciste, convinte, per fortuna a torto, che lì si nascondesse un pericoloso sovversivo.
La reazione dell’agonizzante regime si era fatta di giorno in giorno più rancorosa.
Nel dicembre ’43 erano stati, infatti, arrestati il parroco di Voldomino, don Piero Folli e Secondo Sassi, un esponente di spicco del partito comunista di Germignaga.
Picchiati, malmenati e torturati erano stati rinchiusi nel carcere di S.Vittore, entrambi rei, su versanti opposti, ma convergenti, di aver aiutato ad espatriare lungo il confine svizzero Ebrei e perseguitati politici.
Il gioco si faceva duro.
Un errore di valutazione sarebbe stato fatale.
D’altra parte i contatti con le basi operative partigiane erano indispensabili.
Una soluzione andava trovata, subito.
Mario si scervellò una notte intera e la notte porta consiglio.
La soluzione però era lì, a portata di mano, come mai non l’aveva colta, come aveva fatto a non pensarci prima? Remo, il figlio quattordicenne, divenuto ormai un alter idem nella costante condivisione del suo lavoro, era la persona giusta.
Un ragazzo non avrebbe dato nell’occhio, sarebbe divenuto lui la staffetta partigiana, deputata a tenere i contatti, a portare i messaggi.
Certo bisognava mettere in conto un margine di rischio non trascurabile, ma Remo era un ragazzone volitivo, con due gambe da cerbiatto, abituato a muoversi con disinvoltura tra i boschi, senza farsi notare.
All’occorrenza sarebbe stato in grado di far perdere le sue tracce.
Mario, come un novello Abramo, sapeva di esporre il proprio figlio ad un pericolo mortale.
La ferrea legge della guerra impietosa non risparmiava nessuno.
Ormai però si era infilato in un vicolo cieco: non era più possibile retrocedere.
Remo dal canto suo si sentiva ormai attore e coprotagonista di un dramma che andava in scena giorno dopo staffetta partigiana giorno davanti ai suoi occhi.

Remo Passera

Non poteva sottrarsi, non voleva defilarsi come tanti altri di fronte a quel compito così rischioso.
Una vita di sacrifici e la vicinanza di quel padre intrepido lo avevano reso uomo anzi tempo, come se l’estate fosse esplosa prematuramente all’inizio della primavera ed avesse fatto maturare prima del tempo i frutti sugli alberi.
Gli sguardi incattiviti dei fautori della RSI erano comunque ben puntati sui movimenti di ciascun componente della famiglia Passera, come un cannocchiale che non perde di vista la propria preda.
Senza che loro se ne avvedessero erano dei sorvegliati speciali ed un giorno, un brutto giorno, per padre e figlio scattarono le manette.
Forse tra le mura del carcere avrebbero cantato, avrebbero vuotato il sacco e rivelato nomi e circostanze che agli inquirenti sfuggivano ancora.
«Luino rimarrà senza latte – osò protestare Remo nella sua giovanile incoscienza – e voi dovrete vedervela con la gente, già esasperata dal razionamento».
Un’eventualità che i carcerieri dovettero mettere in conto, per non peggiorare la situazione ed alienarsi le residue simpatie su cui si reggeva il fragile regime di Salò.
Si convenne allora che il padre Mario dovesse riprendere il proprio lavoro sotto la vigile sorveglianza delle brigate nere.
Come ostaggio, fino a nuovo ordine, nel carcere di Luino sarebbe rimasto il giovane Remo, precocemente chiamato in causa in una guerra senza quartiere che non risparmiava neppure un ragazzo della sua età.
Del resto le deportazioni di massa di intere famiglie di Ebrei, bambini compresi, non potevano far sperare di meglio.
Oggi Remo è qui a raccontare questa sua disavventura, fiero di aver contribuito anche lui alla nascita di una nuova Italia, insieme col padre Mario il cui ricordo rimane indelebilmente scolpito nel suo cuore.

by Emilio oliba