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LUCIANO NOSETTI

LUCIANO NOSETTI IL RICORDO DI UNA TRAVAGLIATA GIOVINEZZA TRA GLI ORRORI DELLA GUERRA

 

"Lo abbiamo incontrato in una mite giornata di febbraio nella sua casa solatia in quel di Tronzano, una balconata di fronte all’incanto di un lago coronato da una sinuosa catena di monti. Alla tenera età di 98 primavere, Luciano Nosetti mostra una straordinaria verve giovanile e si inoltra nel ginepraio del suo passato con disinvolta lucidità. Fin da ragazzo aveva lavorato a Milano presso la ditta Broggi, una grossa azienda meccanica con sede nella zona della Bovisa che occupava circa 1500 persone. Poi la naia. Soldato di leva, era stato assegnato al 4° Alpini di Pallanza nel marzo 1939 e poi a Locana Canavese dove aveva trascorso tutto l’inverno. Sei anni e otto mesi di vicissitudini tormentate, conclusesi con la deportazione nel campo di concentramento di Meppen, ai confini con l’Olanda, dove era giunto il 28 ottobre del ‘43, dopo un avventuroso viaggio su una tradotta. Alla fine di gennaio del ’40, era stato, infatti, mandato in Grecia, dove era rimasto fino a maggio di quello stesso anno. Poi un breve ritorno in Italia da maggio a dicembre. A gennaio del ‘41 era stato inviato in Iugoslavia e qui era rimasto fino al 10 ottobre del ’43 quando era stato fatto prigioniero alle bocche di Cattaro. Gli Italiani avevano sconsideratamente dato fuoco a tutte le baracche, richiamando l’attenzione dei partigiani che si annidavano sulle alture circostanti: una strage. Luciano si era salvato solo perché si era fortunatamente trovato nella parte anteriore della colonna in marcia. Tra le vittime di quella dannata circostanza, ricorda un suo compagno di Pino, un certo Tomasina e un altro, morto di tifo petecchiale in Grecia. Non può dimenticare neppure un certo tenente Gregorutti, forse romano, uomo di grande umanità, morto a 29 anni, colpito con ogni probabilità da un fuoco amico e un altro ufficiale, il tenente Giuliani, perito in combattimento in Albania. Da Meppen era stato poi trasferito nel campo di concentramento di Francke-Schule, scuola vicino alla stazione ferroviaria di Düsseldorf. Qui allarmi e bombardamenti si susseguivano con incalzante frequenza: trecento persone terrorizzate si precipitavano a rompicollo nei rifugi, più volte al giorno. A Dusseldorf era rimasto dal gennaio del ’44 fino alla Pasqua del ’45. Un’esperienza dura, tanti compagni morti. Una notte addirittura 28 morti fuori sulle barelle, congelati. A Dusseldorf non aveva fatto altro che montare baracche e sgomberare macerie, il lavoro peggiore che possa esistere. Il campo di concentramento era circondato da un reticolato attraversato dalla corrente elettrica. Al suo arrivo ai primi di novembre del 1943, i prigionieri, circa 500 disperati, era stati costretti a rimanere nudi all’addiaccio dalle 7 del mattino fino a mezzogiorno, in attesa della distribuzione del vestiario e dell’assegnazione alle singole baracche. Due suoi compagni si erano attaccati alla rete metallica ed erano rimasti fulminati. La disciplina era ferrea. Chi sgarrava veniva percosso con un nerbo di bue. Quante botte! I prigionieri venivano picchiati per i più futili motivi. Il giudizio di Luciano sui tedeschi è perentorio: non mostravano nessuna sensibilità per l’individuo. La cosa più avvilente nello stato prigionia è la consapevolezza di non essere più padroni di niente e di essere esclusivamente al servizio degli altri, esposti all’arbitrio incontrollato di chi dispone dispoticamente della tua vita. Luciano ripeteva a se stesso: «Devo mantenermi in salute ad ogni costo. Se mi ammalo, mi fanno un’iniezione e via». Quelli che venivano ricoverati in ospedale, infatti, non facevano più ritorno. Il rancio era distribuito alle cinque del pomeriggio nel campo: una specie di minestrina, con una fetta di formaggio e una fetta di pane. Alla mattina caffè amaro, poi con la pala in spalla dalle 7 del mattino alle 4 del pomeriggio a rimuovere macerie, sotto la costante paura dei ricorrenti bombardamenti. A mezzogiorno niente pranzo. La notte non si riusciva a dormire per la fame. Quanta fame! E poi un insidioso logoramento psicologico. Quando si coricava, Luciano rimuginava sulla sua triste condizione:«Io non sono più padrone di niente, non sono più niente». Fuggire dal campo era impossibile, si rischiava di rimanere fulminati dalla corrente. Si dormiva in terra con due coperte, una sotto e una sopra. Liberato dagli Americani alla vigilia di Pasqua del 1945, era tornato a casa che pesava 36 Kg. Alla stazione neppure i suoi famigliari lo avevano riconosciuto: era uno scheletro coperto di pelle. Luciano ricorda inoltre un certo Angelo Vitali di Tronzano, morto sotto un bombardamento a Vienna, il 3 o il 4 maggio 1945, perché qui la guerra era terminata l’8 maggio. C’era anche chi non riusciva rassegnarsi alla rigida disciplina militare e alla prospettiva di dover combattere. Luciano ricorda due commilitoni, uno dei quali di Luino, che durante uno scontro a fuoco in Albania, si erano sparati sui piedi per poter essere rimpatriati ed esonerati dal servizio militare. Una lunga esistenza intessuta di lavoro e di un’intelligente attività commerciale che ha fatto di Luciano un apprezzato imprenditore. Tuttavia nulla ha potuto cancellare questa amara esperienza che ha segnato in maniera indelebile i migliori anni della sua giovinezza.

Agostino Nicolò

Emilio Rossi