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Raimondo Xausa


LA GIOVINEZZA DEI CENT’ANNI

 

 

Raimondo Ernesto Xausa ha da poco varcato la soglia dei cento anni, un dono concesso a un’eletta schiera di privilegiati. Alla sua veneranda età, gode tuttavia di una salute invidiabile che potrà regalargli ancora un sereno percorso verso altri ambíti traguardi. È però la sua straordinaria lucidità mentale che ci colpisce. Si avverte tangibile la sensazione di trovarsi di fronte al saggio di biblica memoria che non ha vissuto invano, ma che ha fatto tesoro della multiforme esperienza del suo lungo cammino per poter guardare il mondo dalla sommità di un poggio elevato, come quello dove sorge a Brezzo di Bedero la sua casa. Immersa nel verde da un lato, disvela dall’altro un panorama mozzafiato con le giogaie dei monti in lontananza che si specchiano nelle limpide acque del lago. Il suo buen retiro dove trascorre le giornate circondato dalle affettuose cure dei figli. Con meticolosa precisione ci racconta la sua storia, fornendoci precise informazioni perfino sull’esatta grafia dei nomi delle città tedesche dove fu forzatamente deportato. Correva l’anno 1941. Raimondo, durante i lavori di manutenzione dei binari della stazione ferroviaria di Laveno subisce un incidente che gli provoca lo schiacciamento delle dita. Siamo nel mese di marzo. In quei giorni giunge la cartolina precetto e Raimondo è costretto a presentarsi in caserma con il braccio al collo. Viene ricoverato per 15-20 giorni all’ospedale di Udine, poi, dimesso, si imbarca per Fiume, poi per Zara e raggiunge Benkovac dove gli Italiani sono costretti ad ingaggiare una furiosa lotta contro le formazioni partigiane titine. Quattordici «ribelli» vengono fucilati dopo un sommario processo. A Raimondo viene affidato il delicato incarico di portaordini, a seguito di un sabotaggio nemico alla linea telefonica. A Dubrovnik Raimondo incontra Giovanni Rossi, un suo compaesano, originario del comune di Lusiana. Viene dalla Grecia ed è destinato al servizio di sorveglianza della linea ferroviaria. Da Dubrovnik le truppe italiane vengono dislocate alle bocche di Cattaro, dove le acque sono costantemente insidiate da bombe di profondità. Siamo nel 1942. Nel porto di Dubrovnik approda la nave Rosandra carica di alpini. A 15 km di distanza si è, infatti, verificato un conflitto a fuoco e gli alpini sono dislocati in diversi punti strategici per presidiare il territorio e per operazioni di rastrellamento contro i «ribelli». Ed è qui che l’8 settembre 1943, le truppe vengono sorprese dall’annuncio shock dell’armistizio. Il disorientamento è totale. Raimondo fugge in montagna dove costruisce una specie di fortino, scendendo solo per approvvigionarsi in un magazzino di rifornimento. Poi, nella generale situazione di anarchia, sopraggiungono i Tedeschi che impongono l’immediata consegna delle armi. Improvvisamente avanza un carro armato italiano sul quale un ufficiale inveisce contro di loro gridando a squarciagola: «Vigliacchi, traditori!» i Tedeschi lo bloccano. Identico trattamento viene riservato a due portaordini italiani, contro i quali i Tedeschi lanciano una bomba. Fucilano inoltre l’ufficiale italiano comandante di vascello che ha affondato la nave per sabotaggio. I soldati vengono caricati su una tradotta diretta in Ungheria, 50 in ogni vagone: un groviglio di persone, un’aria irrespirabile. Lungo il percorso bande di partigiani assalgono il convoglio. Giunti a destinazione, dopo giorni di forzato digiuno, ricevono un pezzo di pane che divorano avidamente. Il viaggio riprende alla volta di Dusseldorf. Qui finalmente possono sfamarsi con un minestrone fatto esclusivamente con acqua e carote. Il comandante tedesco ha anche l’impudenza di prendersi gioco di loro:«Mangiate, roba buona che vi fa bene!». Poi una proposta indecente con voce perentoria: «Ora vi mandiamo in Italia a combattere contro gli Americani!». La risposta da parte di tutti è altrettanto tassativa:«Noi rimaniamo qui, come prigionieri». Raimondo viene destinato ai lavori in un’azienda agricola di proprietà di un membro della Wehrmacht nello stammlager 11° A. Una famiglia contadina dove impara ad arare i campi con l’aratro trainato dalle mucche. Raimondo esegue gli ordini senza fiatare, lavora e basta. Ricorda anche il nome dei figli: Egon, 13 anni, Ditem, 11 anni e una bambina di 6 anni, Animi. Come 15 compagni di sventura che lavoravano presso altri contadini, è addetto alla coltivazione delle barbabietole da zucchero e delle patate. I prigionieri dormono in una baracca recintata dal filo spinato. Zuppa, minestra, patate, mele e pere rubate costituiscono gli ingredienti del misero rancio quotidiano. Perfino durante le giornate di brutto tempo bisogna uscire a lavorare. Con la pioggia o con la neve i vestiti sono sempre gli stessi. Per riparare le scarpe rotte si industria a farsi la suola con un pezzo di legno. Un scampolo di stoffa di una coperta si trasforma in una camicia e in una canottiera. Il freddo è di giorno in giorno più intenso e pungente. Nella baracca, «il nostro albergo», c’è solo una stufetta sulla quale vengono cotte, tagliate a pezzettini, le patate rubate per placare una fame insaziabile. Per Natale però i loro ospiti tedeschi li gratificano con qualche boccale di birra. Un giorno corrono un brutto rischio: all’orizzonte appare improvvisamente un caccia alleato che mitraglia a bassa quota un trattore. Il guidatore ha appena il tempo di darsela a gambe per mettersi in salvo. Raimondo apprende facilmente un po’ di tedesco che gli permette di cavarsela in diverse congiunture. Nel 1945 finalmente arrivano gli Americani liberatori. Distribuiscono ogni ben di Dio, poi li trasferiscono a Salzwedel presso Amburgo ed in seguito a Dickholsen presso Hannover, sotto l’egida degli Inglesi che, non smentendo la loro proverbiale rigidezza, gli sequestrano l’apparecchio radio. Qui rimane fino all’agosto 1945. Prima di partire da Dickholsen, gli italiani assistono ad una messa di ringraziamento celebrata da due cappellani militari, poi costruiscono una croce che impiantano in una vicina località a ricordo della fine della guerra e a perenne auspicio di pace. Inizia quindi il viaggio di ritorno in patria. Raimondo è ridotto in precarie condizioni di salute, un fantasma: pesa 42 kg e, secondo le disposizioni impartite dagli Americani, necessita di una assistenza costante. Verona riserva una pessima accoglienza ai reduci dalla prigionia: la gente si barrica in casa e chiude le persiane. Raimondo a bordo di un camion viene trasportato a Marostica. Dopo essere stato rifocillato con qualche michetta di pane, riprendere il cammino e percorre a piedi i 5 km che lo separano da casa. Attraversa la contrada del suo paese, si ferma in un’osteria per chiedere informazioni dei suoi: nessuno lo riconosce. Il papà, quando lo rivede, si scioglie in lacrime, anche perché nel frattempo la mamma era morta, mentre il fratello partigiano si nascondeva dietro casa. I fascisti lo braccavano e minacciavano il padre di morte se non avesse fornito loro informazioni attendibili: «Non ti uccidiamo solo perché sei vecchio!». Le preoccupazioni per i figli e la scomparsa della moglie hanno gravemente compromesso il suo stato di salute. Il cuore non regge, nonostante le premure dei figli che gli procurano i farmaci anche a prezzi esorbitanti al mercato nero. Dopo due anni se ne andrà anche lui. Raimondo decide allora di trasferirsi a Brezzo di Bedero presso le sorelle. Trova occupazione nella cava di calce di Caldé e si riappropria della sua vita, scompaginata dalla guerra e dalle disavventure di una terribile prigionia. Ora il cielo sembra volerlo risarcire con una longevità confortata dagli affetti più cari per quegli anni consumati nel vortice di un conflitto crudele e distruttore. A lui, che ha attraversato due secoli bellicosi e infidi, senza lasciarsi vincere dagli eventi, si può applicare la definizione tratta dal Libro della Sapienza:«Vecchiaia veneranda non è la longevità, né si calcola dal numero degli anni; ma la canizie per gli uomini sta nella sapienza».

Agostino Nicolò

Emilio Rossi