La volontà di non dimenticare la Battaglia del San Martino è rimasta immutata nel tempo perché i fatti accaduti su quel monte nel lontano novembre 1943 hanno in diverso modo interessato varie generazioni e lasciato una profonda traccia non solo nel territorio varesino. I parenti dei partigiani, che lassù hanno perso i loro cari, risalgono il monte San Martino, diretti al Sacrario che ne custodisce la memoria, per manifestare il loro immutato dolore. Le associazioni partigiane, composte da uomini e donne che hanno vissuto in prima persona l’esperienza resistenziale con percorsi difficili e a volte anche drammatici, si ritrovano nelle gesta dei partigiani del San Martino, avendone condiviso valori e idealità e si prodigano perché la memoria venga tramandata, soprattutto presso i giovani, non solo con le celebrazioni. Le popolazioni locali, avendo avuto diretta esperienza delle vicende partigiane e condiviso ansie e preoccupazioni, ricordano, con particolare partecipazione, quel gruppo di soldati nel cui ardire avevano riposto tante speranze, dando risalto alla determinazione di quei giovani nel condurre la lotta al nazifascismo e nel voler costruire una Italia libera, giusta e democratica, a costo di qualsiasi sacrificio. Le autorità, spronate dalla convinta volontà di non dimenticare dei loro concittadini, hanno celebrato e celebrano la ricorrenza dell’evento, rafforzando l’intensità delle manifestazioni nei momenti particolarmente problematici della vita democratica.
La battaglia ebbe luogo sul monte San Martino nei giorni 14 e 15 novembre del 1943 quando i nazifascisti sferrarono il loro attacco contro la formazione militare denominata «Esercito Italiano-Gruppo “Cinque Giornate” Vallalta di S.Martino Varese» agli ordini del ten. col. Carlo Croce. L’ingente dispiegamento da parte tedesca di forze umane (circa 2.000 soldati) e di mezzi (aerei, cannoni, mortai, mitragliatrici, lanciafiamme,…), sproporzionato rispetto alla composizione numerica dell’avversario da annientare (circa 150 partigiani), dimostra quanto fondate fossero le apprensioni dei comandi tedeschi per la più che probabile reazione italiana all’occupazione subita e per la sempre più percettibile intolleranza nei confronti del fascismo e conferma quanto decisa fosse la volontà tedesca di eliminare tutti quegli ostacoli che avrebbero potuto costituire un serio pericolo al sopraggiungere degli eserciti anglo-americani. L’azione di forza, che richiese il sacrificio di 42 partigiani, pose fine all’iniziativa di un esiguo gruppo di ribelli, ma non sconfisse la coscienza di quei giovani, anzi rinsaldò le loro convinzioni e rinvigorì la loro decisione di continuare la lotta al nazifascismo in altri luoghi e con altre modalità
Il percorso della formazione Cinque Giornate iniziò l’8 settembre 1943 a Portovaltravaglia. Che cosa accadde in quei giorni nel Presidio di Porto Valtravaglia, di cui si avevano solo frammentarie testimonianze, è documentato in una memoria stesa nel 1968 dal ten. Germano Bodo, aiutante maggiore del col. Carlo Croce, a completamento della testimonianza del capitano Enrico Campodonico pubblicata nel 1949 sulla rivista «Il Movimento di Liberazione in Italia» e riproposta a cura della Provincia di Varese nel 1980. La notizia dell’armistizio giunse nel Presidio collocato nella requisita Vetreria Lucchini la sera dell’8 settembre tramite alcuni ufficiali che ebbero modo, presso l’Albergo del Sole di Porto Valtravaglia, di ascoltare alla radio il comunicato del gen. Pietro Badoglio. Lo sconcerto fu grande allorché si constatò che nessun comando superiore si era premurato di darne comunicazione telefonica alle varie caserme. Il ten. col Croce, ufficiale di complemento dei Bersaglieri, comandante di due battaglioni di reclute dell’Aviazione da addestrare alla difesa dei campi di aviazione e di una trentina di soldati del 7° Reggimento Fanteria, si rese immediatamente conto che il proclama di Badoglio avrebbe avuto come conseguenza l’immediata occupazione tedesca del territorio italiano. L’arrivo dei tedeschi gli riportò alla mente la drammatica esperienza vissuta durante i viaggi di trasferimento dei battaglioni dei bersaglieri e degli alpini in Russia dove, avendo conosciuto l’efferatezza nazista ([…] tremo di sdegno per quel che vedo e sento), maturò la determinazione di schierarsi contro un nemico che definiva un barbaro ignobile. La sua prima decisione fu quella di presidiare con i soldati tutte le vie di accesso alla zona di Porto Valtravaglia e di prendere contatto con i reparti militari dislocati a Luino e Laveno. La riunione del 9 settembre al Comando di Varese si concluse con un nulla di fatto. Il Presidio non disponeva né di armi né di munizioni, per cui bisognava venirne in possesso al più presto. Da Varese Croce riuscì ad ottenere 10.000 colpi sciolti per fucile e da requisizioni effettuate ai militari di passaggio che stavano fuggendo in Svizzera armi e qualche automezzo.
Fino al 10 settembre sera i soldati restarono compatti con il loro comandante, poi, a causa delle sollecitazioni esterne, della visione di sbandati in fuga verso la Confederazione, delle pressioni dei parenti che sopraggiungevano da ogni dove, iniziarono a disertare. L’impossibilità di affrontare un nemico che si sapeva agguerrito e ben armato indusse il Colonnello a prendere una decisione: trasferirsi sui monti di Dumenza per poter dominare il sottostante territorio e, in caso di estremo pericolo, per sconfinare nella vicina Svizzera. Non potendo contare sul trasporto con battello, attraverso il lago, di uomini e mezzi a Luino, Croce decise di partire a piedi senza darne preavviso al Comando di Varese che, venuto casualmente a conoscenza di quanto stava accadendo dopo un contatto telefonico con il Presidio, ordinò l’immediato rientro, causando così il totale disorientamento dei soldati che in breve portò allo sfaldamento dei reparti. La notte tra l’11 e il 12 settembre un battaglione di bersaglieri ciclisti in fuga abbandonò davanti al Presidio tutto ciò che aveva in dotazione : biciclette, moschetti e nove mitragliatrici Breda. La mattina del 12, Croce, con un centinaio di uomini si trasferì a Roggiano e si ricoverò nelle postazioni militari costruite durante la Prima Guerra Mondiale in prossimità di Cascina Fiorini e vi rimase per circa una settimana in attesa di trovare una posizione idonea e difendibile. Incursioni nelle caserme abbandonate di Luino e Laveno consentirono un buon rifornimento di armi, munizioni e viveri che, caricati su autocarri militari e automezzi civili, vennero trasportati il 19 settembre a Vallalta di San Martino in Villa S. Giuseppe, ex Caserma Luigi Cadorna e in quel momento residenza estiva dell’Istituto Sordomute Povere di Milano, messa a disposizione degli undici militari rimasti con il col. Carlo Croce, ossia il ten. Germano Bodo, il sottoten. Franco Rana, il sottoten. Dino Cappellaro e sette soldati. Il primo impegno fu di dotarsi di un nome: «Esercito Italiano - Gruppo “Cinque Giornate” Monte San Martino di Vallata Varese » e di un motto «Non si è posto fango sul nostro volto». Nei giorni successivi furono apportati miglioramenti alla caserma, fu reso impraticabile, con la realizzazione di un fossato e di uno sbarramento, l’imbocco della strada per Mesenzana, furono ripristinate le postazioni in caverna e realizzate postazioni all’aperto per mitragliatrici e si avviarono tutte quelle attività richieste per la costituzione di una formazione militare, nonché operazioni volte al recupero di materiale bellico e, soprattutto, di viveri. Il gruppo divenne ogni giorno sempre più numeroso per il continuo affluire di militari italiani, di ragazzi in età di leva e di soldati dei comandi alleati fuggiti dai campi di prigionia, fino a raggiungere, ad ottobre, la consistenza di circa 150 unità.
A questo punto si rese necessaria la suddivisione del gruppo in tre compagnie di circa 50 uomini, ciascuna agli ordini di un ufficiale. Furono affidate: - al ten. Carlo Hauss Compagnia Comando da situarsi presso il «Forte», - al ten. Giorgio Vabre la Prima Compagnia da appostare nelle gallerie basse, - al capitano Enrico Campodonico la Seconda Compagnia che restò acquartierata in Villa S. Giuseppe. Vennero inoltre nominati come aiutante maggiore del Colonnello il ten. Germano Bodo e come cappellano della formazione don Mario Limonta. Gli uomini del San Martino furono validamente sostenuti dai componenti del Comitato Nazionale di Liberazione di Varese che condivisero con essi non solo le idealità, ma anche la concreta volontà di combattere l’occupante e l’oppressore e le loro ideologie per fare di nuovo dell’Italia un paese libero e democratico, degno di rispetto e di considerazione. Tra loro ricordiamo Antonio De Bortoli, Silvio Bracchetti, Luigi Ronza, Giacinto De Grandi. Si dimostrò collaborativa anche buona parte del clero locale e della popolazione dei paesi adiacenti al San Martino.
L’azione partigiana che sembrava, inizialmente, non suscitare nei tedeschi eccessive preoccupazioni, indusse i nazifascisti ad avviare da subito una capillare rete di spionaggio che esplicò la sua azione di controllo attraverso sedicenti partigiani che si presentavano al colonnello Giustizia, nome di battaglia del col. Croce, per essere annessi al gruppo e che dopo qualche giorno, si dileguavano con l’aiuto delle persone che abitavano nei luoghi di frequentazione partigiana, disposte a collaborare o per condivisione dell’ideologia o, più spesso, per un riscontro economico. Ai primi di novembre i comandi tedeschi ebbero precise informazioni circa i componenti del gruppo, le loro abitudini, la provenienza dei rifornimenti, la dotazione di armi, l’ubicazione delle fortificazioni e gli appostamenti delle sentinelle. Non furono le azioni partigiane a Mesenzana e al Casone, tra Cassano Valcuvia e Rancio, non autorizzate dal col. Croce che causarono morti e feriti tra i tedeschi, a scatenare la repressione nazifascista, ma il timore che l’avvicinarsi dell’inverno e l’ingrossarsi delle fila partigiane potessero costituire un serio pericolo, soprattutto in vista dell’arrivo degli eserciti anglo-americani. La consapevolezza che lo scontro col nemico fosse oramai inevitabile rese il Colonnello ancor più determinato tanto da rifiutare i suggerimenti del C.N.L di abbandonare le posizioni ritenute poco difendibili e il patteggiamento con gli emissari fascisti, messaggeri di proposte di resa. Una sola fu la sua risposta: «Deporremo le armi solo quando i tedeschi avranno lasciato l’Italia e l’Italia sarà liberata dal fascismo».
I tedeschi, che dal 16 settembre presidiavano con la Guardia di Frontiera e con reparti delle SS il territorio compreso tra la sponda orientale del Lago Maggiore e lo Stelvio con il compito di arrestare i soldati fuggiaschi e di ostacolare la formazione di bande ribelli, consolidarono nel Varesotto la loro presenza con l’arrivo, il primo novembre, di una compagnia di Polizia di montagna. Portano come data il 4 e l’11 novembre le riunioni con il Prefetto di Varese per preparare il progetto di lotta contro i partigiani del San Martino. Il 13 novembre i giornali svizzeri comunicarono che attraverso la radio tedesca era stato diramato lo stato di assedio in tutta la Lombardia, l’ordine di chiusura degli esercizi pubblici, ad eccezione dei ristoranti, fino al 21 novembre e la sospensione della pubblicazione dei giornali. Con l’insediamento a Rancio Valcuvia, il 14 novembre 1943, del comando tedesco del 15° Reggimento di Polizia agli ordini del ten. col. Von Braunschweig e l’arrivo di uomini della Guardia di Frontiera, di pattuglie di artiglieri, della Milizia fascista e dei Carabinieri si diede inizio alla feroce repressione partigiana che avrà il suo epilogo nella battaglia del 15 novembre. Nei paese posti alle pendici della montagna vennero rastrellati il 14 novembre tutto gli uomini dai 15 ai 65 anni e rinchiusi negli edifici pubblici o nelle chiese. Nelle sedi del comando tedesco furono concentrati un numero considerevole di uomini, considerati collaboratori dei partigiani o partigiani stessi dove furono sottoposti a durissimi interrogatori unitamente a sevizie e torture. La raccapricciante testimonianza delle tre donne, Augusta Lazzarini, Redegonda Lazzarini Boldrini e Anna Vagliani, rastrellate all’alpe di San Michele e costrette a ripulire i locali delle torture, fa comprendere quanto spietata fosse la ferocia nazista. Tutte le persone rastrellate furono liberate nelle giornate del 17 e del 18 novembre. A gruppi mobili dei partigiani fu demandato il compito di disturbare l’arrivo delle pattuglie nemiche e alla compagine di 10 uomini, agli ordini del ten. Alfio Manciagli appostata sulla vetta al San Martino, di rallentare l’avanzata delle formazioni nemiche provenienti da Arcumeggia verso le postazioni di Vallalta.
Gli uomini della Seconda Compagnia posizionarono le loro armi attorno a villa S. Giuseppe in direzione della strada Duno - San Martino, quelli della Compagnia Comando a difesa del “Forte” e dell’accesso da San Michele e quelli della Prima Compagnia a protezione della strada per Mesenzana. L’intervento dell’aviazione tedesca rese la battaglia ancor più drammatica attuando con un fitto bombardamento, una più incisiva azione distruttiva. A mezzogiorno le forze nemiche, dopo aver soverchiato i partigiani della vetta e averne fatti prigionieri sei, attaccarono il resto della formazione partigiana con ogni tipo di armamento. I partigiani della Seconda Compagnia, a corto di munizioni, furono costretti ad asserragliarsi nel Forte. Parecchi uomini della Prima Compagnia, terrorizzati dalla ferocia della lotta, abbandonarono le loro postazioni in cerca di una via di fuga. Alcuni furono catturati dai tedeschi e fucilati, con gli altri partigiani fatti prigionieri nel corso della battaglia, il giorno successivo dopo interrogatori e sevizie di ogni genere. Con l’arrivo dell’oscurità i tedeschi sospesero ogni azione dando l’opportunità ai partigiani di ricompattarsi e di organizzare la fuga verso la Svizzera che raggiunsero all’alba del 16 novembre. I tedeschi, prima di partire per altre destinazioni, provvidero a radere al suolo Villa S. Giuseppe, danneggiata dai bombardamenti e, per ragioni inspiegabili, la chiesetta di S. Martino. Alcuni partigiani, tra cui anche il col. Carlo Croce, nei mesi successivi rientrarono in Italia per continuare a dare il loro apporto alla lotta di Liberazione. Qualcuno, in seguito a delazioni, fu arrestato e deportato nei campi di sterminio. Il col. Croce, dopo un primo tentativo fallito, rientrò in Italia clandestinamente il 13 luglio 1944. Intercettato all’Alpe del Painale, nelle vicinanze di Sondrio, fu catturato dalla Milizia Confinaria. Durante il breve scontro a fuoco riportò gravi ferite ad un braccio che gli venne amputato all’ospedale di Sondrio. Trasferito all’ospedale di Bergamo, presso il comando tedesco, morì il 24 luglio per le torture subite durante gli interrogatori effettuati dalle SS tedesche .